Sentenze

Anticorruzione, Tar Lazio: le misure di trasparenza si applicano anche agli ordini professionali

Bocciato il ricorso di alcuni Consigli dell’Ordine Forense contro le delibere n. 144/2014 e 145/2014 dell'Anac

martedì 29 settembre 2015 - Redazione Build News

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Con la sentenza n. 11391/2015 depositata il 24 settembre, la terza sezione del Tar Lazio ha respinto il ricorso con il quale alcuni Consigli dell’Ordine Forense circondariali hanno impugnato le deliberazioni n. 144 e 145 del 2014 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, con le quali è stata ritenuta applicabile a tali Enti, in via diretta, tutta la normativa in materia di contrasto alla corruzione, con particolare riferimento alla legge-delega n. 190/2012 e al decreto legislativo n. 33/2013.

Il Tar Lazio conferma dunque che, come gli enti pubblici, anche gli ordini professionali sono tenuti a predisporre un piano triennale di prevenzione, nominare un responsabile anticorruzione e rispettare le regole di incompatibilità e inconferibilità degli incarichi. Devono inoltre pubblicare i dati su patrimonio e redditi dei titolari delle funzioni di indirizzo politico. 

LE MISURE DI TRASPARENZA DELLA RIFORMA SEVERINO SI APPLICANO ANCHE AGLI ORDINI PROFESSIONALI. I giudici amministrativi osservano che “un diretto ed espresso riferimento alla natura pubblica degli odierni ricorrenti” è operato “dalla legge di riforma dell’ordinamento forense n. 247 del 2012, coeva alla legge delega n. 190 in materia di contrasto alla corruzione”.

Non è quindi ipotizzabile che l’art. 2 comma II bis del D.L. n. 101/2013 abbia potuto avere la funzione di sottrarre al novero degli enti pubblici non economici le organizzazioni ordinistiche.

“Tale ipotizzata sottrazione – evidenzia il Tar Lazio - si rivelerebbe di difficile comprensione, ad appena un anno dalla entrata in vigore sia della riforma forense (che in quel novero di enti ne ha cristallizzato la presenza con l’art. 24) che della legge di contrasto alla corruzione (che si riferisce indistintamente a tutti gli enti pubblici non economici)”.

Inoltre, per il legislatore della riforma “neppure la natura associativa degli enti in questione, espressamente menzionata nell’art. 24, ne ha impedito l’ascrizione al novero degli enti pubblici non economici”.

Idem “per le altre peculiari caratteristiche degli enti in discorso, invocate nel ricorso in esame ma, tutte, puntualmente elencate dal medesimo legislatore che ne ha affermato espressamente la natura di enti pubblici non economici: si tratta della autonomia patrimoniale e finanziaria, dal finanziamento solo mediante i contributi degli iscritti, della potestà di auto-organizzazione”.

“Neppure l’esclusivo finanziamento mediante i contributi degli iscritti”, osservano i giudici amministrativi, “ha fatto desistere il legislatore dal qualificare espressamente le organizzazioni ordinistiche quali enti pubblici non economici”.

CONTO ECONOMICO CONSOLIDATO DELLO STATO. Quanto poi alla mancata ricomprensione degli Ordini nel conto economico consolidato dello Stato, ovvero tra gli enti individuati dall’Istat ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica), il Tar Lazio sottolinea che tale disposizione prevede un richiamo omnicomprensivo a “le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”, ed ha natura tendenzialmente estensibile a ciascuno di tali Enti, poiché al terzo comma dispone che “La ricognizione delle amministrazioni pubbliche di cui al comma 2 è operata annualmente dall'ISTAT con proprio provvedimento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre”.

Come ha affermato il Consiglio di Stato nella sentenza n.6014 del 28 novembre 2012, ai fini della ricomprensione nel conto economico è irrilevante che un ente si sostenti con la sola contribuzione di una data categoria di soggetti oppure attinga alla fiscalità generale.

Secondo il Tar Lazio, “il fatto che determinati enti siano finanziati esclusivamente da prestazioni patrimoniali imposte agli iscritti, non comporta necessariamente che tali risorse non abbiano finalità pubbliche”.

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