Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte «La specifica previsione degli artt. 5 n. 4 della legge 24 giugno 1923 n. 1395 e 43 del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537, i quali fanno riferimento ad abusi e mancanze commessi nell'esercizio della professione, non esclude la rilevanza disciplinare di altri fatti o comportamenti, realizzati dall'ingegnere, contrari alle norme di deontologia, ancorché essi non siano in diretta relazione con l'esercizio della professione e con la qualifica professionale» (Cass., S.U., n. 1265/1993; n. 75439/1991; n 6312/1990).
Lo ha ricordato la seconda sezione civile della Corte suprema di cassazione nella sentenza n. 24679 del 8 ottobre 2018.
Nel caso in esame il 1° Collegio di disciplina dell'Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Verona, con provvedimento del 21 gennaio 2016, ha irrogato a un architetto la sospensione dall'esercizio della professione per la durata di dieci giorni.
All'architetto era stata contestata la violazione dei doveri di lealtà e trasparenza nei rapporti con i colleghi e gli organi istituzionali della professione.
In particolare erano state contestate le seguenti condotte:
- avere utilizzato un indirizzo mail istituzionale (l'indirizzo Inarcassa) per l'invio di comunicazioni personali, creando confusione fra gli iscritti circa la natura di tali comunicazioni;
- avere espresso giudizi denigratori in merito a un convegno organizzato da una associazione costituita da ingegneri e architetti tenutosi il 6 febbraio 2014;
- avere diffuso fra gli iscritti comunicazioni contenenti informazioni non vere destinate ad incidere sul voto per il rinnovo del Consiglio provinciale dell'Ordine.
Il Consiglio nazionale degli architetti, con decisione del 30 novembre 2016, depositata il 13 febbraio 2017, ha rigettato il ricorso dell'architetto. Contro tale decisione il professionista ha proposto ricorso per cassazione affidato a undici motivi. L'Ordine degli Architetti di Verona ha resistito con controricorso.
In allegato la sentenza