In merito al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, la Corte di cassazione, terza sezione panale, con la sentenza n. 6873/2017 pubblicata il 14 febbraio, ribadisce che qualora il cambio di destinazione d'uso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d) del T.U. Edilizia, in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Il caso esaminato dalla Cassazione penale riguarda gli interventi di trasformazione del Palazzo Tornabuoni di Firenze, immobile di rilevante interesse storico artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale. L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune di Firenze, centro storico, di interesse culturale ed ambientale.
Le varie D.i.a. che si sono succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato) da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale, residenziale". Ciò comportava senz'altro – osserva la Cassazione - la necessità, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22, comma 3, lett. a) dello stesso d.P.R..
La suprema Corte ribadisce che “la realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (…) mentre non risulta che, nella specie, la Tornabuoni s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio”.
La categoria “ristrutturazione edilizia" “a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici”.
La Cassazione ricorda che "non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi: - di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.); - di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.). Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit. T.U. e quella penale di cui all'art. 44, lett. b)”.
Ai fini della individuazione della destinazione turistico – alberghiera di una struttura immobiliare “non si deve tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza turistico ricettiva”.
La imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso “caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dall'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico. Altrettanto si dica per gli interventi di "restauro e risanamento conservativo".”
La Cassazione ribadisce che “gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti in zona omogenea A dei quali venga mutata la destinazione d'uso anche all'interno della medesima categoria funzionale”.
È un errore “ritenere sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n. 380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione). La cd. Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità, anche ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001”.