La vicenda oggetto del giudizio della Cassazione trae origine dal contratto preliminare stipulato nel 2004 con il quale un cittadino promise di vendere a una coppia di coniugi un appartamento all'ultimo piano di un edificio sito in Milano e dalla successiva scoperta - da parte dei promissari acquirenti - del fatto che la copertura dell'edificio era realizzata in eternit (materiale in fibrocemento contenente amianto).
A conclusione dei giudizi di merito, la Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza del locale Tribunale, rigettò la domanda con la quale i detti coniugi (promissari acquirenti) ebbero a chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore - in relazione al vizio occulto ed essenziale relativo al materiale utilizzato per copertura dell'edificio - e la condanna dello stesso alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria ricevuta.
Contro la sentenza di appello i due coniugi hanno proposto ricorso per cassazione.
Con l'ordinanza n.15742/2017 depositata il 23 giugno, la seconda sezione civile della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso. Per quanto riguarda il primo motivo del ricorso, proposto ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. Civ. in relazione alla mancata considerazione della nocività dell'amianto quale nozione di fatto che rientra nella comune esperienza, la Cassazione osserva che - contrariamente a quanto assumono i ricorrenti - “la Corte territoriale ha tenuto conto della pericolosità dell'amianto in generale (in relazione all'eventualità che, per il cattivo stato di conservazione del materiale, siano rilasciate nell'ambiente fibre che possono essere inalate dall'uomo), ma l'ha esclusa nel caso specifico sulla base dell'accertamento eseguito dall'ARPA, che ha verificato l'assenza di attualità del pericolo (prescrivendo solo il monitoraggio della copertura in eternit), cosicché i giudici di appello legittimamente hanno ritenuto che l'appartamento promesso in vendita fosse attualmente idoneo ai fini abitativi e che la presenza della copertura in amianto non ne diminuisse il valore in misura tale da giustificare la risoluzione del contratto”.
Anche il secondo motivo (proposto ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione al disposto degli artt. 1 e 12 legge n. 257 del 1992 e d.m. 6/9/1994, per la mancata valutazione della inevitabilità del deterioramento dell'eternit e dei rischi conseguenti) “è infondato, in quanto la legge 27 marzo 1992, n. 257 - posta a tutela dell'ambiente e della salute - ha vietato per il futuro la commercializzazione e l'utilizzazione di materiali costruttivi in fibrocemento, ma non ha imposto la rimozione generalizzata di tali materiali nelle costruzioni (come quella oggetto di promessa di vendita) già esistenti al momento della sua entrata in vigore, prevedendo rispetto a tali costruzioni solo l'obbligo dei proprietari degli immobili di comunicare agli organi sanitari locali la presenza di amianto fioccato o friabile negli edifici (art. 12) e consentendo la conservazione delle strutture preesistenti che impiegano tale materiale a condizione che esse si trovino in buono stato manutentivo”.
La suprema Corte evidenzia che “la presenza di copertura in eternit nell'edificio di cui fa parte l'immobile promesso in vendita si pone perciò in linea con la normativa vigente, considerato che tale materiale è stato utilizzato legittimamente ratione temporis e che l'accertamento eseguito in concreto dall'ARPA ha escluso pericoli attuali per la salute”. Il probabile deterioramento del materiale nel corso del tempo “è stato peraltro considerato dai giudici di appello, i quali hanno ritenuto che lo stesso avrebbe potuto giustificare (in luogo della risoluzione del contratto) una «modesta riduzione del prezzo», nella specie non richiesta dai promissari acquirenti”.
Quanto poi al terzo motivo (proposto ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., relativamente alla mancata ammissione delle prove volte a dimostrare che il promittente venditore conosceva l'esistenza della copertura in eternit e al mancato esperimento di C.T.U.), esso “è inammissibile, in quanto si è ormai formato il giudicato interno – per mancata impugnazione con l'appello - sulla statuizione della sentenza di primo grado che ha escluso la ricorrenza dell'errore riconoscibile e del dolo del promittente venditore (v. p. 7 della sentenza impugnata), mentre la nomina di C.T.U. - che la Corte territoriale ha ritenuto implicitamente superflua in presenza degli accertamenti tecnici eseguiti dall'ARPA - rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, il cui esercizio non è sindacabile in cassazione”.