“In tema di compensi spettanti ai prestatori d'opera intellettuale, l'art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale, indicando in primo luogo l'accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione (Cass., Sez. II, 23 maggio 2000, n. 6732; Cass., Sez. VI-2, 29 dicembre 2011, n. 29837; Cass., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17726) ed il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera soltanto in mancanza di convenzione”.
Lo ricorda la seconda sezione civile della Corte di cassazione nell'ordinanza n.2631/2021 pubblicata il 4 febbraio.
In particolare, “in materia di onorari di avvocato deve ritenersi valida la convenzione tra professionista e cliente che stabilisce la misura degli stessi in misura superiore al massimo tariffario (Cass., Sez. II, 5 luglio 1990, n. 7051; Cass., Sez. II, 10 ottobre 2018, n. 25054), vigendo il principio di ammissibilità e validità di convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti dai clienti agli avvocati, anche con previsione di misure eccedenti quelle previste dalle tariffe forensi (cfr. Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1999, n. 103)”.
“D'altra parte”, aggiunge la suprema Corte, “la misura del compenso dovuta dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese e agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese fra le parti, in ragione del diverso fondamento dell'obbligo di pagamento degli onorari, che riposa, per il cliente, nel contratto di prestazione d'opera, e, per la parte soccombente, nel principio di causalità e dell'inefficacia nei confronti dell'avvocato della sentenza che ha provveduto alla liquidazione delle spese, in quanto non parte del giudizio (Cass., Sez. VI-2, 17 ottobre 2018, n. 25992)”.
In allegato l'ordinanza