Nel caso di un radicale ampliamento di un piccolo manufatto già esistente, con completo stravolgimento della sagoma, al fine di poterlo adibire a residenza, l’unico criterio da applicare per verificare l’ultimazione dell’opera è quello del completamento del “rustico” e non anche quello del completamento funzionale.
Lo ha precisato la sesta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 4287/2015 depositata il 15 settembre.
Palazzo Spada ricorda che l’art. 31, comma 2, della legge n. 47 del 1985 prevede due criteri alternativi per la verifica del requisito dell’ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono: si tratta del criterio strutturale, che vale nei casi di nuova costruzione, e del criterio funzionale, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti.
L’UNICO CRITERIO DA APPLICARE È QUELLO STRUTTURALE DEL COMPLETAMENTO DEL RUSTICO. Qualora, come nella fattispecie oggetto del presente giudizio, le opere edilizie, pur avendo ad oggetto una costruzione già esistente, non si limitano ad un semplice mutamento interno o cambio di destinazione, ma abbiano consistenza tale da determinare il completo mutamento dei connotati strutturali di una costruzione già esistente (dato il significato ampliamento della volumetria e il radicale mutamento della sagoma), il criterio di applicare non può che essere unicamente quello c.d. strutturale.
Diversamente opinando, infatti, si finirebbe per riservare un trattamento differenziato e più severo (pretendendosi anche il completamento funzionale) a quelle situazioni in cui l’intervento edilizio, anziché dare vita ad una costruzione prima totalmente inesistente, abbia avuto come base di partenza una costruzione già esistente, ma radicalmente diversa (per volumetria e sagoma) rispetto a quella che risulta all’esito dell’attività di trasformazione.
Tale distinzione, fondata su una circostanza di per sé non significativa, quale è quella appunto quella rappresentata dalla preesistenza o meno di un manufatto sebbene radicalmente diverso da quello poi realizzato, risulterebbe evidentemente irragionevole e, quindi, fonte di un altrettanto irragionevole disparità di trattamento.
Quindi, l'ideale suddivisione operata dalla sentenza appellata, del manufatto in due “parti” (una interessata dal cambio di destinazione d’uso ed una interessata dalla nuova volumetria) risulta illogica e contrastante con il risultato realizzato all’esito dell’intervento di edificazione, sostanzialmente equiparabile ad una nuova costruzione.
AI FINI DEL CONDONO, PER EDIFICI “ULTIMATI” SI INTENDONO QUELLI COMPLETI ALMENO AL “RUSTICO”. Il Consiglio di Stato, inoltre, ribadisce che ai fini del condono, per edifici “ultimati” si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tampognature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 1998, n. 130).
Nel caso di specie, il criterio dell’esecuzione del rustico e del completamento della copertura risulta soddisfatto, atteso che la soletta in laterocemento posa a chiusura del manufatto integra una reale chiusura superiore in grado di definire la sagoma e la volumetria del fabbricato. Tale copertura, infatti, è in muratura, è stabilmente infissa al corpo verticale ed è costituita con materiale non precario (soltanto non rifinita con tegole o simili): essa è, pertanto, tale da permettere la precisa individuazione del volume da condonare, escludendosi ogni possibilità di far luogo a successive modifiche o ampliamenti.