Sentenze

Consulta: i residui vegetali si possono bruciare. Non sono rifiuti

Bocciato il ricorso del Governo contro due norme regionali di Marche e Friuli. L'evoluzione del quadro normativo

venerdì 27 febbraio 2015 - Redazione Build News

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Con la sentenza n. 16 depositata il 26 febbraio 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Marche 18 marzo 2014, n. 3 e dell’art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 28 marzo 2014, n. 5 promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Nel primo ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri ha censurato l’art. 9 della legge reg. Marche n. 3 del 2014, nella parte in cui esclude a priori e, in via generale, dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti alcuni residui vegetali (paglia; stoppie; materiale vegetale derivante da colture erbacee ed arboree, e dalla distruzione di erbe infestanti, rovi o simili; altro materiale agricolo e forestale naturale non pericoloso) sottoposti ad abbruciamento, in riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto contrasterebbe con la disciplina contenuta negli artt. 184-bis e 185, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e nella direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive).

Nel secondo ricorso è censurato l’art. 2 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 5 del 2014, nella parte in cui esclude a priori e, in via generale, dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti alcuni residui vegetali (residui ligno-cellulosici derivanti da attività selvicolturali, da potature, ripuliture o da altri interventi agricoli e forestali), sottoposti a rilascio, triturazione o abbruciamento in loco, ad alcune condizioni – ossia: a) il trattamento avvenga entro 250 metri dal luogo di produzione; b) il materiale triturato e le ceneri siano reimpiegate nel ciclo colturale, tramite distribuzione, come sostanze concimanti o ammendanti; c) lo spessore del materiale distribuito non superi i 15 centimetri nel caso della triturazione e i 5 centimetri nel caso delle ceneri –, in riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto contrasterebbe con la disciplina contenuta nei citati artt. 184-bis e 185, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 152 del 2006, e nella citata direttiva n. 2008/98/CE, eccedendo perciò le competenze statutarie.

Va precisato che con la legge regionale n. 11 del 2014 la Regione Friuli Venezia Giulia ha disposto l’abrogazione delle due disposizioni introdotte dalla norma impugnata.

L'EVOLUZIONE DEL QUADRO NORMATIVO. Secondo la Consulta le questioni non sono fondate. Ricostruendo sommariamente l’evoluzione del quadro normativo sul tema, la Corte costituzionale ricorda che ai sensi di quanto originariamente stabilito dal codice dell’ambiente (decreto legislativo n. 152 del 2006), erano esclusi dall’ambito dell’applicazione della disciplina della gestione dei rifiuti soltanto «le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nelle attività agricole ed in particolare i materiali litoidi o vegetali e le terre da coltivazione, anche sotto forma di fanghi, provenienti dalla pulizia e dal lavaggio dei prodotti vegetali riutilizzati nelle normali pratiche agricole e di conduzione dei fondi rustici, anche dopo trattamento in impianti aziendali ed interaziendali agricoli che riducano i carichi inquinanti e potenzialmente patogeni dei materiali di partenza» (art. 185, comma 1, lettera e), del testo originario del d.lgs. n. 152 del 2006). Nella vigenza di tale normativa, la Corte di cassazione (terza sezione penale, sentenza 4 novembre 2008, n. 46213) aveva ritenuto che l’eliminazione, mediante incenerimento, dei rami degli alberi tagliati fosse da considerarsi illecita, non potendo essere qualificata come una forma di utilizzazione di tali materiali nell’ambito di un’attività produttiva.

Il quadro normativo è mutato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205 (Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), il cui art. 13, riscrivendo integralmente l’art. 185 del codice dell’ambiente – e riprendendo letteralmente quanto stabilito dall’art. 2, paragrafo 2, lettera f), della direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio – ha previsto, al comma 1, lettera f), che dall’applicazione della disciplina sui rifiuti sono escluse, tra l’altro, «le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana». Alla luce di questo nuovo quadro normativo, è mutata altresì la giurisprudenza di legittimità. Sempre la terza sezione penale della Corte di cassazione (sentenza 7 marzo 2013, n. 16474) ha, infatti, ritenuto che la combustione degli sfalci e dei residui da potatura, ove non abbia determinato un danno per l’ambiente o messo in pericolo la salute umana, rientri nella normale pratica agricola: dunque, i materiali relativi devono essere esclusi dal novero dei rifiuti.

Nonostante l’avallo della Corte di cassazione, la suddetta interpretazione è stata contraddetta dalle «Linee guida dell’attività operativa 2013» del Corpo forestale dello Stato, dettate con nota del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del 10 aprile 2013, prot. n. 458. In esse, pur dandosi conto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 205 del 2010, se ne propone una interpretazione volta a sminuirne il contenuto innovativo, stabilendo che, salvo che vi sia un utilizzo in agricoltura o per la produzione di energia, «la combustione sul campo di rifiuti vegetali configura reato di illecito smaltimento dei rifiuti, sanzionato penalmente» dall’art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006.

Anche a seguito di tale interpretazione adottata dal Corpo forestale dello Stato, diversi legislatori regionali sono intervenuti sulla questione, con discipline di tenore diverso, ma tutte dirette a chiarire, sulla scorta di quanto già affermato dalla Corte di cassazione, che l’abbruciamento dei residui vegetali, ove rispetti determinate condizioni, rientra nella normale pratica agricola ed è perciò attività sottratta alla disciplina dei rifiuti e alle relative sanzioni.

È in questo contesto ordinamentale – sottolinea la Consulta - che debbono essere collocate e comprese le due leggi regionali impugnate. Esse sono state approvate al fine di superare talune interpretazioni della normativa del codice dell’ambiente affermatesi in via amministrativa che sminuivano la portata innovativa delle modifiche al codice dell’ambiente apportate, nel 2010, in conformità alla citata direttiva dell’Unione europea. In tal modo, i legislatori regionali hanno inteso fornire elementi di certezza agli imprenditori agricoli, che altrimenti si sarebbero trovati esposti al rischio di incorrere, nell’esercitare una tradizionale pratica agricola e anche per piccoli quantitativi di materiale vegetale, in sanzioni di notevole gravità.

La Corte costituzionale rimarca ancora che recentemente anche il legislatore statale è intervenuto sulla materia, con l’art. 14, comma 8, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 (Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 116. Tale disposizione esplicita, con una novella al codice dell’ambiente, che «[l]e attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti» (art. 182, comma 6-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006). Al tempo stesso, il legislatore statale ha vietato la combustione di residui vegetali agricoli «[n]ei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni» e ha attribuito ai comuni e alle altre amministrazioni competenti in materia ambientale «la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)».

Con un ulteriore intervento di coordinamento, sempre ad opera del decreto-legge n. 91 del 2014, come convertito si è, inoltre, disposto – novellando l’art. 256-bis del codice dell’ambiente, che era stato inserito dall’art. 3, comma 1 del decreto-legge 10 dicembre 2013, n. 136 (Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1 della legge 6 febbraio 2014, n. 6 –, che la disciplina sulla combustione illecita dei rifiuti non si applica «all’abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato» e che resta fermo «quanto previsto dall’art. 182, comma 6-bis» del medesimo codice dell’ambiente (comma introdotto dal già ricordato decreto-legge n. 91 del 2014, come convertito).

Alla luce di quanto fin qui esposto, secondo la Corte costituzionale appare chiaro che, come attestato a più riprese dalla Corte di Cassazione (oltre alle già citate sentenze, si veda, ancor più esplicitamente, terza sezione penale, sentenza 7 gennaio 2015, n. 76), l’art. 185, comma 1, lettera f), del codice dell’ambiente (e quindi anche le corrispondenti disposizioni della direttiva n. 2008/98/CE) consentiva – pure anteriormente all’introduzione del comma 6-bis all’art. 182 da ultimo ricordata – di annoverare tra le attività escluse dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti l’abbruciamento in loco dei residui vegetali, considerato ordinaria pratica applicata in agricoltura e nella selvicoltura.

LEGITTIME LE DISPOSIZIONI REGIONALI. In questa chiave, dunque, si può ritenere che il legislatore regionale sia legittimamente intervenuto sul punto, nell’esercizio della propria competenza nella materia «agricoltura», di carattere residuale per le Regioni a statuto ordinario (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2013, n. 116 del 2006 e n. 282 e n. 12 del 2004) ed esclusiva per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 4, primo comma, numero 2), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

Peraltro, conclude la Consulta, dato che attiene alla «tutela dell’ambiente», di competenza esclusiva dello Stato, la definizione degli ambiti di applicazione della normativa sui rifiuti, oltre i quali può legittimamente dispiegarsi la competenza regionale nella materia «agricoltura e foreste», restano fermi i vincoli posti dal sopravvenuto comma 6-bis dell’art. 182 del codice dell’ambiente al fine di assicurare che l’abbruciamento dei residui vegetali in agricoltura – in conformità del resto a quanto stabilito dalla normativa dell’Unione europea – non danneggi l’ambiente o metta in pericolo la salute umana.

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