Il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non può essere avulso da una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato in una sentenza del 6 aprile scorso (n. 1371/2016) e i principi ivi affermati sono stati più di recente ribaditi dalla quarta sezione di Palazzo Spada nella sentenza n. 4580/2016 pubblicata il 2 novembre.
L’entrata in vigore dell’art. 2- bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 “non ha elevato a bene della vita suscettibile di autonoma protezione, mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa avulso da ogni riferimento alla spettanza dell’interesse sostanziale al cui conseguimento il procedimento stesso è finalizzato”.
Inoltre, il riconoscimento della responsabilità della Pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa “richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l’accertamento che l’inosservanza delle cadenze procedimentali è imputabile a colpa o dolo dell’Amministrazione medesima, che il danno lamentato è conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell’Amministrazione, nonché la prova del danno lamentato”.
Nella citata sentenza del 6 aprile scorso è stato inoltre rilevato che: a) il superiore principio debba valere laddove venga prospettata la richiesta di liquidazione della chance; b) laddove ci si dolga di un ritardo dell’Amministrazione in relazione a pretese che non avrebbero avuto pratica possibilità di accoglimento allo stato l’unica forma di protezione prevista dall’ordinamento sarebbe semmai, ricorrendone i presupposti, quella dell’indennizzo ex art. 2 bis, comma 1 bis, della legge citata.