Per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata. Ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Lo ha ribadito il Tar Abruzzo, sezione prima, nella sentenza n.109/2017 pubblicata il 23 febbraio.
I giudici amministrativi abruzzesi ricordano che “per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <>, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio”.
Pertanto, non è necessario “dimostrare da parte dei ricorrenti il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi. Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a ché il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale”.
In allegato la sentenza