Sentenze

Edilizia, la Corte costituzionale boccia le norme della Liguria

L'ordinamento statale – TU 380/2001 - prevale sulle norme locali. L'installazione di nuovi impianti tecnologici, anche senza creazione di volumetria, non è libera ma richiede almeno una comunicazione al Comune

venerdì 4 novembre 2016 - Redazione Build News

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Con la sentenza 231/2016 depositata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzione di una serie di norme della legge della Regione Liguria 7 aprile 2015, n. 1 “Disposizioni di adeguamento della normativa regionale”.

Riportiamo qui tutti i punti espressi dalla Consulta.

“Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del 2003; in seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012; n. 309 del 2011). Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia.

INTERVENTI LIBERI. L’art. 6 del TUE identifica le categorie di interventi edilizi c.d. “liberi”, ovvero non condizionati al previo ottenimento di un assenso da parte dell’amministrazione, distinguendo: le attività libere per le quali l’interessato è del tutto esonerato da oneri (art. 6, comma 1); le attività libere per le quali viene prescritta una comunicazione dell’interessato di inizio dei lavori, cosiddetto “cil” (art. 6, comma 2); le attività libere che richiedono comunicazione di inizio dei lavori asseverata da tecnico abilitato, cosiddetto “cila” (art. 6, comma 4).

Nel novero delle attività completamente deformalizzate, il TUE include «gli interventi di manutenzione ordinaria», definiti come «gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti» (art. 3, comma 1, lettera a, del TUE).

IMPIANTI TECNOLOGICI. La previsione impugnata, non limitandosi a considerare l’integrazione o il mantenimento in efficienza di impianti tecnologici già esistenti, e includendo, con l’espressione «installazione», anche la realizzazione di nuovi impianti (sia pure non comportanti la creazione di volumetria), si pone in contrasto con la disciplina del TUE che assoggetta quest’ultima tipologia di intervento al regime della cila o della SCIA, a seconda della consistenza del manufatto.

In sostanza, per la Regione Liguria l'installazione di nuovi impianti tecnologici, anche senza creazione di volumetria, sarebbe libera da Cia e Scia; la Consulta, invece, non è dello stesso avviso in quanto riconosce come liberi solo gli interventi di integrazione e mantenimento in efficienza di impianti già esistenti, non quelli nuovi. Pertanto, per i nuovi impianti è necessaria almeno una comunicazione al Comune. Fanno eccezione solo le pompe di calore aria aria con potenza al di sotto dei 12 kW che possono essere eseguite (in tutto il territorio nazionale) attraverso una manutenzione ordinaria.

OPERE DI ARREDO. Con riguardo al profilo di impugnazione concernente le opere di arredo, va precisato che l’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 riconduce nella nozione di manutenzione ordinaria e, quindi, al regime giuridico della edilizia libera, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lettera a) della legge reg. n. 16 del 2008 l’installazione di «elementi di arredo urbano e privato pertinenziali non comportanti creazione di volumetria» (art. 6, comma 2, lettera i, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Nel contempo, l’art. 6, commi 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 ha incluso nel novero delle attività edilizie “libere” l’«installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate» (art. 21, comma 1, lettera i-bis, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Le due tipologie di intervento non sembrano presentare significative differenze: né l’utilizzo del termine «elementi» in luogo di «opere», né l’aggiunta dell’esclusione delle volumetrie «anche interrate», appaiono in grado di segnare una apprezzabile diversità dei rispettivi connotati edilizi.

Poiché il Governo lamenta l’illegittima inclusione delle opere in questione tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente, senza necessità di titolo abilitativo, occorre verificare se il legislatore regionale, nel precisare l’ambito riservato all’attività edilizia libera, si sia mantenuto nei limiti di quanto gli è consentito. L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario possano estendere tale disciplina a «interventi edilizi ulteriori» (lett. a), nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei controlli» (lett. b). Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni” di “nuova costruzione” recate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001» (sentenza n. 171 del 2012). L’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (così ancora la sentenza n. 139 del 2013).

Su queste basi, si deve ritenere che il legislatore regionale ligure, nell’includere nel novero delle attività edilizie “libere” l’installazione di opere di arredo privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, non abbia esteso i casi di attività edilizia libera a un’ipotesi integralmente nuova, non coerente e logicamente assimilabile agli interventi già previsti ai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE. Come si può desumere anche dalla diversa disciplina riservata dallo stesso legislatore regionale alle «opere di sistemazione e di arredo» di natura pertinenziale (art. 17 della legge reg. n. 16 del 2008) assoggettate a DIA “obbligatoria” (ai sensi dell’art. 23 della stessa legge), la tipologia di arredo incluso tra gli interventi non subordinati a titoli abilitativi corrisponde a manufatti che, per le loro caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, sono destinati a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte nel tempo, e non sono pertanto idonei a configurare un aumento del volume e della superficie coperta, né ad alterare il prospetto o la sagoma dell’edificio.

Si tratta dunque di opere assimilabili a quelle previste all’art. 6, comma 6, del TUE, che alla lettera e) considera gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici». La legge regionale appare anzi più restrittiva, perché precisa (a differenza della legge statale) che tali opere non possono comportare la creazione di volumetria. Sussiste, tuttavia, un profilo rispetto al quale il legislatore regionale ha ecceduto dalla sfera della competenza concorrente assegnata dall’art. 117, terzo comma, Cost.

Mentre il citato art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, subordina gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato al comune, la previsione regionale impugnata accomuna la disciplina dell’arredo su area pertinenziale e di quello sugli spazi “scoperti” dell’edificio, ma non impone per il primo lo stesso onere formale.

Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila.

COMUNICAZIONE PREVENTIVA. L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive - al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi - la natura di principio fondamentale della materia del «governo del territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali.

Essendo precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia, l’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente ai commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino.

DISCIPLINA DELLE DISTANZE. Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione, contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).

La questione è fondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo − il governo del territorio − che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011).

Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza − statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio” −, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).

Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione − ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98 − dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001. La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016).

La disposizione regionale impugnata, non affidando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici» e non essendo funzionale ad un «assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio», riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di «governo del territorio», in violazione del limite dell’«ordinamento civile» assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Va ancora precisato che, se è vero che - come sembra opinare il Governo - le stesse ragioni di contrasto con il riparto di competenze costituzionali potevano essere riferite al testo originario della norma, in quanto non conseguono alla sostituzione delle parole «ivi compresi» con la parola «nonché» (anche gli «interventi sul patrimonio edilizio esistente» possono infatti esaurirsi in un intervento mirato), la mancata impugnazione a suo tempo, da parte dello Stato, della disposizione originaria non rileva ai fini del presente giudizio, poiché la disposizione censurata – che peraltro presenta un contenuto di novità rispetto alla disposizione modificata, anche per l’aggiunta della previsione che il recupero del sottotetto non costituisce creazione di un nuovo piano – ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato. L’omessa impugnazione da parte di quest’ultimo di precedenti norme regionali, analoghe a quelle oggetto di ricorso, non ha rilievo, dato che l’istituto dell’acquiescenza non è applicabile nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale (ex plurimis, sentenze n. 215 e n. 124 del 2015, n. 139 del 2013, n. 71 del 2012 e n. 187 del 2011).

SCIA. È altresì fondata, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost., in riferimento all’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 11, secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, con il quale è stata sostituita la lettera e) del comma l, dell’art. 21-bis della legge reg. n. 16 del 2008. In virtù di tale modifica la ristrutturazione edilizia comportante incrementi della superficie all’interno delle singole unità immobiliari o dell’edificio «con contestuali modifiche all’esterno» è stata assoggettata a SCIA.

La norma regionale impugnata, assoggettando a SCIA gli interventi di ristrutturazione edilizia con «contestuali modifiche all’esterno», si pone in evidente contrasto con l’art. 10, comma l, lettera c), del TUE - costituente principio fondamentale della materia «governo del territorio» - il quale prevede che gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti modifiche «dei prospetti» sono assoggettati a permesso di costruire o a DIA alternativa (art. 22, comma 3, lettera a, del TUE). La modifica dei prospetti (ovvero, del fronte o della facciata) comporta infatti inevitabilmente una modifica «all’esterno» dell’edificio.

L’interpretazione riduttiva della Regione, secondo la quale la norma impugnata si limiterebbe a subordinare alla presentazione della SCIA le sole modifiche di dettaglio – che non potrebbero consistere in modifiche della dimensione e delle caratteristiche essenziali dei prospetti, bensì soltanto in modifiche di dettaglio delle facciate esistenti (quali gli adattamenti delle bucature o di altri elementi già presenti e che siano connessi ai lavori di ristrutturazione interna) – non corrisponde alla lettera della disposizione, che si riferisce invece genericamente e senza alcuna limitazione a tutte le modifiche esterne eseguite contestualmente ai lavori di ristrutturazione interni alle singole unità immobiliari.

Il concorrente profilo di contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., denunciato dal Governo, perché il citato art. 6, comma 11, avrebbe invaso la potestà esclusiva dello Stato in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni», cui andrebbe ricondotta la disciplina della SCIA, può ritenersi assorbito.

DIA “OBBLIGATORIA”. È fondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 15, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, nella parte in cui assoggetta obbligatoriamente a DIA gli «interventi [di ristrutturazione edilizia] comportanti mutamenti della destinazione d’uso aventi ad oggetto immobili compresi nelle zone omogenee A o nelle zone o ambiti ad esse assimilabili e non rientranti nei casi di cui al ridetto articolo 21-bis, comma 1, lettera f)», per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento all’art. 10, comma l, lettera c), del TUE.

L’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, subordina a permesso di costruire la realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti della destinazione d’uso. Per la stessa tipologia di opere, l’art. 22, comma 3, del TUE consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”). Tale facoltà esaurisce i propri effetti sul piano esclusivamente procedimentale, mentre sul piano sostanziale dei presupposti, nonché su quello penale e contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire.

L’art. 23, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008, come novellato dalla norma censurata, assoggetta a comunicazione di inizio dei lavori e a DIA “obbligatoria” vari interventi, tra i quali i lavori di ristrutturazione edilizia comportanti mutamenti della destinazione d’uso su immobili compresi nelle zone omogenee A o nelle zone o ambiti ad esse assimilabili (lettera b). Anche la DIA regionale “obbligatoria” - come la cosiddetta “super DIA” del citato art. 22, comma 3, del TUE - esaurisce i propri effetti sul piano procedimentale (art. 23, comma 3, della legge reg. n. 16 del 2008). Sotto questo profilo, dunque, il regime regionale contestato è coerente con quanto previsto dal TUE.

La previsione della DIA “obbligatoria” come modello procedimentale sostitutivo del permesso di costruire, anziché come modello alternativo (secondo quanto previsto nel TUE), tuttavia, rappresenta un disallineamento non consentito della disciplina regionale rispetto a quella statale. La facoltà per il privato, prevista dal legislatore statale, di chiedere il permesso di costruire o di presentare, alternativamente, denuncia di inizio di attività per la realizzazione degli interventi previsti all’art. 22, comma 3, del TUE, ricade nella disciplina dei titoli abilitativi, e quindi tra i principi fondamentali della materia concorrente del «governo del territorio».

L’ordinamento statale attribuisce una particolare considerazione all’interesse del privato a munirsi di un assenso esplicito – anche a garanzia della migliore certezza delle situazioni giuridiche, tanto più rilevante quando, come nella materia edilizia, possano sopravvenire interventi interdittivi dell’amministrazione – come è confermato dal successivo comma 7, del medesimo art. 22 del TUE, il quale fa comunque sempre salva la possibilità per l’interessato di chiedere il rilascio del permesso di costruire per interventi che sarebbero realizzabili con la mera presentazione della denuncia di inizio attività.

CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE. Il Presidente del Consiglio censura infine le disposizioni contenute nell’art. 6, commi 20 e 21, primo e secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015.

L’articolo 6, comma 20, recante modifica dell’art. 38, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008, assoggetta a contributo di costruzione gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che determinano un incremento del carico urbanistico, o comunque un’incidenza significativa sotto il profilo urbanistico, conseguenti a: «un aumento della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari ai sensi dell’articolo 67, con esclusione del caso di incremento della superficie agibile all’interno di unità immobiliari inferiore al limite di 25 metri quadrati e comunque delle variazioni di superficie derivanti da mera eliminazione di muri divisori (nuova lettera a dell’art. 38, comma 1)»; «interventi edilizi di frazionamento di unità immobiliari relativi ad edifici di qualunque destinazione d’uso che determinino un numero di unità immobiliari superiore al doppio di quelle esistenti, anche se non comportanti aumento di superficie agibile» (nuova lettera c dell’art. 38, comma 1).

L’art. 6, comma 21, primo trattino, di modifica dell’art. 39 della legge reg. n. 16 del 2008, esonera dal contributo di costruzione «gli interventi di accorpamento e di frazionamento di unità immobiliari non rientranti nelle fattispecie dell’articolo 38, comma 1, lettere a) e c), anche se comportanti la mera eliminazione di muri divisori od incrementi di superficie delle unità immobiliari inferiori a 25 metri quadrati» (nuova lettera g-bis dell’art. 39, comma 1).

L’art. 6, comma 21, secondo trattino, modifica il comma 2-bis dell’art. 39 della legge reg. n. 16 del 2008, il quale ora recita: «gli interventi di manutenzione straordinaria, che comportino un aumento del carico urbanistico determinato da incremento della superficie agibile all’interno dell’unità immobiliare pari o superiore a 25 metri quadrati e non derivante dalla mera eliminazione di pareti divisorie, sono soggetti al contributo di costruzione commisurato all’incidenza delle sole opere di urbanizzazione da applicarsi sulla totalità della superficie dell’unità immobiliare interessata dall’incremento».

Secondo il Governo tali disposizioni contrasterebbero con l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento all’articolo 17, comma 4, del TUE, il quale prevede che per gli interventi di manutenzione straordinaria (di cui all’art. 6, comma 2, lettera a, del TUE), qualora comportanti aumento del carico urbanistico, il contributo di costruzione sia commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione, purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile. La disciplina statale condiziona l’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione (commisurato in questo caso ai soli oneri di urbanizzazione), all’aumento del carico urbanistico e della superficie agibile, prescindendo da limiti di aumento della superficie calpestabile o di numero delle unità immobiliari soggette a frazionamento o accorpamento. Prevedendo una soglia al di sotto della quale gli interventi sarebbero esonerati dal contributo, la Regione Liguria avrebbe introdotto ipotesi di esonero non contemplate dalla legislazione statale.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 20 e 21, primo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, è fondata.

Con tali disposizioni il legislatore regionale esonera dal contributo di costruzione due categorie di intervento che secondo la legge statale devono invece restare soggette a contribuzione, nei termini fissati dal TUE: gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che determinano un aumento della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari, quando l’incremento della superficie agibile all’interno delle unità immobiliari sia inferiore a 25 metri quadrati, e quando le variazioni di superficie derivino da mera eliminazione di muri divisori; gli interventi di frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pure con aumento di superficie agibile.

A seconda delle loro concrete caratteristiche costruttive, questi interventi (qualificati genericamente dal legislatore regionale come «interventi sul patrimonio edilizio esistente») possono rientrare nella nozione di «manutenzione straordinaria», come definita agli artt. 3, comma 1, lettera b) e 6, comma 2, lettera a) del TUE, o in quella di «ristrutturazione edilizia», come definita dall’art. 3, comma 1, lettera d) del TUE. La disciplina statale prevede per la prima (ove ricorrano i presupposti dell’art. 17, comma 4, del TUE) una riduzione del contributo alla sola parte corrispondente alla incidenza delle opere di urbanizzazione, e per la seconda la regola del pagamento del contributo per intero, salvi casi particolari di esonero, come quello della ristrutturazione di edifici unifamiliari (art. 17, comma 3, lettera b, del TUE), o di riduzione, come quello della ristrutturazione di immobili dismessi o in via di dismissione (art. 17, comma 4-bis, del TUE).

Le fattispecie di esonero introdotte dalle norme regionali impugnate vanno al di là di queste ipotesi e contrastano, dunque, con i principi fondamentali della materia. L’onerosità del titolo abilitativo «riguarda infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del territorio”» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe al principio (elencate all’art. 17 del TUE), in quanto legate a quest’ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980).

INTERVENTI DI MANUTENZIONE STRAORDINARIA E CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE. Resta da scrutinare la censura riferita all’art. 39, comma 2-bis, della legge reg. Liguria n. 16 del 2008 (come novellato dall’art. 6, comma 21, secondo trattino, della legge reg. n. 12 del 2015), ai sensi del quale: «Gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 21-bis, comma 1, qualora comportanti un aumento del carico urbanistico determinato da incremento della superficie agibile all’interno dell’unità immobiliare pari o superiore a 25 metri quadrati e non derivante dalla mera eliminazione di pareti divisorie, sono soggetti al contributo di costruzione commisurato all’incidenza delle sole opere di urbanizzazione e da applicarsi sulla totalità della superficie dell’unità immobiliare interessata dall’incremento».

La questione non è fondata.

È vero che l’art. l7, comma 4, del TUE assoggetta a contributo di costruzione, sia pur in misura ridotta, come visto, tutti gli interventi di manutenzione straordinaria previsti all’articolo 6, comma 2, lettera a), se comportanti aumento del carico urbanistico e purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile, e che la disposizione regionale quantifica il presupposto impositivo dell’aumento di carico urbanistico, stabilendo che esso ricorre quando vi sia un incremento della superficie agibile all’interno dell’unità immobiliare pari o superiore a 25 metri quadrati e non derivante dalla mera eliminazione di pareti divisorie.

Così facendo, peraltro, la legge regionale non invade l’ambito della normativa di principio, in quanto si limita a introdurre una più precisa quantificazione dei presupposti applicativi della disposizione statale. Il principio fondamentale della materia che quest’ultima esprime, ossia la riduzione della contribuzione per le opere di manutenzione straordinaria comportanti un aumento del carico urbanistico, resta salvo, risultando solo precisata, nella norma regionale, la nozione di aumento del carico urbanistico.

Il Governo sostiene infine che l’art. 6, commi 20 e 21, primo e secondo trattino, contrasterebbe anche con gli artt. 3 e 97 Cost., in relazione ai canoni di ragionevolezza e di buona amministrazione, in considerazione di una ritenuta eccessiva gravosità degli oneri imposti agli interessati.

La censura è formulata in termini così generici da non consentire di identificare le ragioni per le quali i parametri invocati sarebbero violati. Il ricorrente non spiega per quale motivo l’imposizione del contributo di costruzione nella misura ordinaria dovrebbe ritenersi eccessivamente onerosa e neppure in quali termini tale maggiorazione potrebbe riflettersi sul buon andamento della pubblica amministrazione. In quanto non offre un percorso logico argomentativo idoneo a collegare le norme impugnate ai parametri invocati, la questione deve essere dichiarata inammissibile (sentenze n. 250 e n. 221 del 2013).”

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