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Equo compenso per tutte le professioni, arriva il no dell'Antitrust

La norma introdotta dal Senato nel decreto fiscale sarebbe in contrasto con i principi di proporzionalità concorrenziale e con i processi di liberalizzazione

lunedì 27 novembre 2017 - Redazione Build News

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L'introduzione nel decreto fiscale dell'equo compenso per tutte le professioni è idonea a ostacolare il processo competitivo e sembra segnare un’inversione di tendenza, vanificando anche le riforme pro-concorrenziali recentemente introdotte.

Lo sostiene l'Antitrust in una segnalazione ai presidenti della Camera e del Senato e al premier, pubblicata sul Bollettino settimanale n. 45 di oggi.

IL PARERE DELL'AGCM. Ecco il testo integrale del parere dell'Agcm in merito alle misure previste in materia di equo compenso e clausole vessatorie introdotte al Senato in sede di discussione del ddl di conversione del d.l. 148/2017.

“L’art. 19 quaterdecies del ddl citato introduce, per tutte le professioni, una disciplina delle clausole vessatorie ulteriore sia rispetto a quella già prevista dal codice civile agli art. 1341 e 1342, sia rispetto a quella introdotta dalla legge 22 maggio 2017, n. 81 (Jobs Act).

La disposizione in esame, al comma 1, prevede l’introduzione dell’art. 13 bis nella legge 31 dicembre 2012, n. 247 (legge forense), già oggetto di segnalazione da parte dell’Autorità, al fine di prevedere una specifica disciplina sull’equo compenso delle prestazioni forensi applicabile nei casi in cui la prestazione professionale si svolga «in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003». Il successivo comma 2 estende la disciplina «anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all'articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi, i cui parametri ai fini di cui al comma 10 del predetto articolo sono definiti dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell'articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27».

La disciplina in questione introduce il principio generale per cui le clausole contrattuali tra professionisti e i clienti che fissino un compenso a livello inferiore dei valori previsti nei parametri individuati dai decreti ministeriali sarebbero da considerare vessatorie e quindi nulle.

Tale nullità, relativa, potrebbe essere fatta valere esclusivamente dal professionista. La norma, nella misura in cui collega l’equità del compenso ai paramenti tariffari contenuti nei decreti anzidetti, reintroduce di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di ostacolare la concorrenza di prezzo tra professionisti nelle relazioni commerciali con tali tipologie di clienti. Se da un lato è vero, infatti, che verrebbe introdotta una nullità di protezione, azionabile esclusivamente dal professionista, dall’altro è altamente improbabile che i clienti accettino la fissazione di un compenso a livelli inferiori assumendosi, così, il rischio di vedersi contestare in corso d’opera o anche successivamente il mancato rispetto del principio dell’equità.

Con riferimento alla pubblica amministrazione, si osserva poi che, in base al comma 3 dell’articolo in esame, la PA è tenuta a garantire «il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo l'entrata in vigore della presente legge». È dunque preclusa alla PA la possibilità di accettare prestazioni con compensi inferiori a quelli fissati nei decreti ministeriali.

In definitiva, tramite la disposizione in esame viene sottratta alla libera contrattazione tra le parti la determinazione del compenso dei professionisti (ancorché solo con riferimento a determinate categorie di clienti). Tale obiettivo viene realizzato, sia affermando il principio del diritto all’equo compenso sopra descritto, sia qualificando (al comma 5) come vessatorie clausole contrattuali che incidono sul compenso del professionista.

L’articolo de quo, che tra l’altro ripresenta alcune disposizioni già inserite in Disegni di legge presentati alla Camera e al Senato, si pone, nel suo complesso, in contrasto con consolidati principi posti a tutela della concorrenza.

Il descritto intervento normativo, ove attuato nei termini proposti, determinerebbe quindi un’ingiustificata inversione di tendenza rispetto all’importante ed impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio e a favore del quale l’Autorità si è costantemente pronunciata. Si tratta, infatti, di misure che, al di là delle motivazioni che le vorrebbero giustificare, ripropongono appieno gli stessi problemi concorrenziali che l’Autorità ha avuto in più occasioni modo di segnalare in tema di tariffe minime.

Secondo i consolidati principi antitrust nazionali e comunitari, infatti, le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione.

In quest’ottica, l’effettiva presenza di una concorrenza di prezzo nei servizi professionali non può in alcun modo essere collegata ad una dequalificazione della professione, giacché, come più volte ricordato dall’Autorità, è invece la sicurezza offerta dalla protezione di una tariffa fissa o minima a disincentivare l’erogazione di una prestazione adeguata e a garantire ai professionisti già affermati sul mercato di godere di una rendita di posizione determinando la fuoriuscita dal mercato di colleghi più giovani in grado di offrire, all’inizio, un prezzo più basso. È noto, infatti, che la qualità di una prestazione professionale si percepisce nel tempo e, al momento della scelta, la reputazione del professionista assume un’importanza cruciale, scalfibile solo attraverso offerte particolarmente vantaggiose che inducono il cliente a dare fiducia a un professionista meno affermato.

Sarebbero proprio i newcomer ad essere pregiudicati dalla reintroduzione delle tariffe minime in quanto vedrebbero drasticamente compromesse le opportunità di farsi conoscere sul mercato e, in definitiva, di competere con i colleghi affermati che dispongono di maggiori risorse per l’acquisizione di clientela, anche di particolare rilievo.

Pertanto, la reintroduzione di prezzi minimi cui si perverrebbe attraverso la previsione ex lege del principio dell’equo compenso finirebbe per limitare confronti concorrenziali tra gli appartenenti alla medesima categoria, piuttosto che tutelare interessi della collettività.

Eventuali criticità connesse alla presenza di fruitori di servizi professionali con elevato potere di domanda non vanno certamente affrontate attraverso la fissazione di un prezzo minimo per l’erogazione dei predetti servizi, che avrebbe l’unico effetto di alterare il corretto funzionamento delle dinamiche di mercato e l’efficiente allocazione delle risorse, ostacolando di fatto lo spontaneo adattamento di domanda e offerta. L’esistenza di possibili situazioni di squilibrio contrattuale può essere invece affrontata attraverso un migliore utilizzo delle opportunità offerte da nuovi modelli organizzativi e dalle possibilità di aggregazione. Si pensi ad esempio alla possibilità di recente introdotta anche per gli avvocati dalla legge sulla concorrenza (l. 124/2017) di costituire studi professionali in forma di società di capitali o studi multidisciplinari, attraverso i quali si possono certamente raggiungere elevate economie di scala, senza pregiudicare la qualità della prestazione.

Diversamente argomentando, ogni settore economico in cui sussistano (o siano suscettibili di verificarsi) tali condizioni di mercato (potere di domanda) dovrebbe vedere l’introduzione per via legislativa di prezzi minimi predefiniti con un’esclusione totale di qualunque grado di concorrenza.

Da tutto quanto precede, si può concludere che le disposizioni sopra richiamate, per quanto circoscritte a determinate tipologie di rapporti contrattuali (“clienti forti” e PA), non sono giustificate da un motivo imperativo di interesse generale, né rispondono al principio di proporzionalità, in quanto hanno l’effetto di eliminare in radice il confronto concorrenziale.

D’altra parte, l’esigenza di far fronte a eventuali squilibri contrattuali potrebbe trovare adeguata risposta in altri strumenti di cui già dispone l’ordinamento.

Merita osservare, in particolare, che la recente disciplina sulla tutela del lavoro autonomo potrebbe soddisfare le esigenze di tutela nei confronti dei clienti “forti” in situazioni di eventuale squilibrio contrattuale. Il Jobs Act ha, infatti, già previsto anche a favore delle professioni, l’estensione della disciplina sui ritardi nei pagamenti nell’ambito delle transazioni commerciali (art. 2) e ha individuato specifiche clausole e condotte abusive – stabilendone l’inefficacia laddove adottate – volte proprio a tutelare il contraente debole (art. 3). Si tratta, in particolare, di clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o recedere da esso senza un congruo preavviso e che fissano termini di pagamento superiori a 60 gg.

È ritenuto, altresì, abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta e viene estesa anche alle professioni la disciplina sull’abuso di dipendenza economica (art. 9 legge 18 giugno 1998, n. 192).

Anche alla luce di tale normativa, pertanto, la proposta di inserimento di un’ulteriore disciplina che si muova sulla stessa linea non risulterebbe neppure necessaria.

In conclusione, l’articolo 19 quaterdecies del ddl in esame, in quanto idoneo a reintrodurre nell’Ordinamento un sistema di tariffe minime, peraltro esteso all’intero settore dei servizi professionali, non risponde ai principi di proporzionalità concorrenziale, oltre a porsi in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate.

In proposito, si sottolinea che la consapevolezza della sussistenza di «una tensione potenziale tra, da un lato, la necessità di un certo livello di regolamentazione di queste professioni e, dall’altro, le regole della concorrenza del trattato» aveva condotto la Commissione europea già nel 2004 ad invitare gli Stati membri all’applicazione stringente del test di proporzionalità, successivamente previsto dalla Direttiva 2006/123 CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (art. 15) al fine di mantenere in vigore esclusivamente regole oggettivamente necessarie per raggiungere obiettivi di interesse generale e costituenti la misura meno restrittiva della concorrenza.”

Il Bollettino Agcm n. 45 del 27 novembre 2017

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