«Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile».
È quanto si legge nella sentenza n. 209 depositata ieri 13 ottobre 2022 (relatore Luca Antonini), con cui la Corte costituzionale, accogliendo le questioni che aveva sollevato davanti a sé, ha dichiarato illegittimo l’articolo 13, comma 2, quarto periodo, del decreto-legge n. 201/2011 là dove parlando di «nucleo familiare» finisce per penalizzarlo, in contrasto con gli articoli 3, 31 e 53 della Costituzione.
L’illegittimità è stata estesa anche ad altre norme, in particolare a quelle che, per i componenti del nucleo familiare, limitano l’esenzione ad uno solo degli immobili siti nel medesimo comune (quinto periodo del comma 2 dell’articolo 13, Dl 201/2011) e che prevedono che essi optino per una sola agevolazione quando hanno residenze e dimore abituali diverse (comma 741, lettera b) della legge n. 160 del 2019, come modificato dall’articolo 5-decies del Dl 146/2021).
Quest’ultima norma, ha precisato la Corte, è stata introdotta dal legislatore per reagire all’orientamento della giurisprudenza di legittimità: la Cassazione è infatti giunta «a negare ogni esenzione sull’abitazione principale se un componente del nucleo familiare risiede in un comune diverso da quello del possessore dell’immobile».
La Consulta ha chiarito che questo orientamento è dipeso dal riferimento al nucleo familiare così come emerge dalla norma su cui la Corte si è autorimessa la questione di legittimità; ha poi precisato che in «un contesto come quello attuale», «caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale».
Pertanto, ai fini del riconoscimento dell’esenzione sulla «prima casa», non ritenere sufficiente - per ciascun coniuge o persona legata da unione civile - la residenza anagrafica e la dimora abituale in un determinato immobile, determina un’evidente discriminazione rispetto ai conviventi di fatto. I quali, in presenza delle medesime condizioni, si vedono invece accordato, per ciascun rispettivo immobile, il suddetto beneficio.
La Corte ha dunque ristabilito il diritto all’esenzione per ciascuna abitazione principale delle persone sposate o in unione civile e però ha ritenuto «opportuno chiarire» che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” ne possano usufruire. Da questo punto di vista, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale mirano a responsabilizzare «i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli», controlli che «la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci».
IL COMMENTO DI CONFEDILIZIA. “La sentenza della Corte costituzionale sulla questione Imu prima casa elimina una penalizzazione inaccettabile nei confronti delle famiglie italiane. Confedilizia aveva segnalato sin da subito il problema ed era anche intervenuta nel giudizio dinanzi alla Consulta, in qualità di amicus curiae, a sostegno dell’accoglimento delle questioni di legittimità”, commenta il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa.
“Importante, tra l’altro, è il richiamo della Corte alla responsabilizzazione dei Comuni ad effettuare adeguati controlli sul corretto utilizzo dell’agevolazione fiscale.
L’auspicio, adesso, è che le amministrazioni locali prendano immediatamente atto della pronuncia della Consulta, adeguando alla stessa le loro azioni, anche con riferimento alle procedure in corso”, conclude Spaziani Testa.
IN ALLEGATO la sentenza.