Assoidroelettrica ha presentato ricorso al Tar contro alcune norme del DM 23 giugno 2016 sugli incentivi alle rinnovabili elettriche non fotovoltaiche.
Riportiamo il documento redatto dall’Avv. Giovanni Battista Conte nel quale sono spiegate le ragioni del ricorso dell'Associazione al Tar.
“1. Il Ministero, con l’art. 2 del d.m. 23 giugno 2016, ha modificato la definizione di nuovo impianto da fonti rinnovabili, descrivendolo come segue: un impianto “realizzato, utilizzando componenti nuovi o rigenerati, in un sito sul quale, prima dell'avvio dei lavori di costruzione, non era presente, da almeno cinque anni, un altro impianto, o le principali parti di esso, alimentato dalla stessa fonte rinnovabile”.
Con tale definizione, pertanto, il Ministero ha inopinatamente introdotto nella previgente definizione l’inciso “o le principali parti di esso”, escludendo così dal novero dei nuovi impianti idroelettrici tutti quelli che siano stati realizzati in luoghi nei quali siano esistiti e siano rinvenibili resti di opere realizzate, anche all’inizio del secolo scorso, per la captazione e l’utilizzo delle acque.
In tal modo si è, di fatto, disincentivato anche il recupero di vecchi mulini o di opere ormai dismesse, magari da molte decine di anni, rendendo preferibile l’uso di nuovo territorio, senza un’apparente valida motivazione, né dal punto di vista della salvaguardia ambientale, né da quello del perseguimento di una strategia economica. L’estensione della definizione di nuovo impianto si pone in netto contrasto sia con la normativa volta ad incrementare la produzione di energia da fonte rinnovabile sia con quella in materia paesaggistica ed ambientale. La norma, infatti, oltre a contrastare con il principio di ragionevolezza, contrasta con tutto quanto disposto dal d.lgs. 42/2004 in materia di conservazione del paesaggio, di tutela del territorio e di recupero dei fabbricati esistenti.
2. Il legislatore, inoltre, col decreto ministeriale in oggetto ha cambiato repentinamente indirizzo, escludendo dall’accesso diretto agli incentivi gli impianti di piccole dimensioni, con potenza nominale fino a 50 KW. Ciò determina, di fatto, una drastica frenata delle iniziative, con evidenti ricadute negative sulla crescita degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, settore nel quale le piccole e medie imprese svolgono un ruolo fondamentale.
Le nuove limitazioni imposte dal d.m. impugnato, escludono dall’accesso diretto agli incentivi proprio quei piccoli impianti i quali, in virtù del principio dell’economia di scala, necessiterebbero di un maggiore sostegno economico. Oltre a porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza, del principio di non discriminazione e di quello di massima incentivazione della produzione di energia rinnovabile, il cambio di orientamento del Ministero contraddice anche il principio del legittimo affidamento.
Sotto altro profilo, la scelta operata non trova un’adeguata giustificazione neppure qualora si intenda valutarla nella pretesa necessità di maggior tutela dei corpi idrici naturali, tale competenza, infatti, è affidata a ben altre disposizioni normative che vengono applicate dall’amministrazione preposta nel corso del provvedimento di concessione e di autorizzazione dell’impianto. La disposizione pone un inutile ostacolo normativo alla realizzazione degli impianti una volta che questi sono già autorizzati e, quindi, ne è stata già vagliata la compatibilità ambientale.
3. L’art. 4, co. III, lett. f) del d.m. 23 giugno 2016 dispone, inoltre, che gli impianti realizzati con procedure di evidenza pubblica da amministrazioni pubbliche, anche tra loro associate, aventi potenza fino a 500 KW, accedano direttamente ai meccanismi d’incentivazione. Tale disposizione comporta una ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato in quanto gli enti pubblici vengono a trovarsi in una situazione di vantaggio rispetto agli operatori economici privati, in netto contrasto con i principi di libera concorrenza e di non discriminazione propri della normativa europea e nazionale in materia di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica.
La preferenza accordata agli impianti realizzati da e con le pubbliche amministrazioni appare, inoltre, in totale spregio della normativa che regola le modalità con cui le amministrazioni pubbliche possono esercitare attività di produzione di beni o servizi ed i limiti a cui tali soggetti sono sottoposti. È previsto, infatti, che le pubbliche amministrazioni non possano costituire società aventi per oggetto attività di produzione e di servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, a prescindere dalle forme con cui lo si faccia. La ratio sottesa a tali previsioni è quella di evitare un turbamento del mercato e della concorrenza che può prodursi anche qualora l’attività di impresa sia esercitata direttamente dall’amministrazione. Del resto, incentivare la partecipazione pubblica all’attività imprenditoriale di produzione di energia comporta spesso il doppio intervento della stessa P.A., sia in veste di ente in qualche modo competente sotto il profilo autorizzativo, sia di soggetto proponente, con evidente distorsione della concorrenza e forte rischio di conflitto d’interessi. Con l’impossibilità di non minare l’efficienza, l’efficacia, e l’imparzialità del procedimento autorizzativo e quindi la migliore realizzazione degli interessi pubblici.
4. Con i commi 9, 10 ed 11 dello stesso art. 4 del d.m. in questione, è stato introdotto l’obbligo per tutti gli operatori di produrre una nuova “attestazione rilasciata dall’autorità competente” che, di fatto, rappresenta l’accertamento o la conferma dell’esame di interessi ambientali già vagliati nel procedimento di concessione.
La disposizione, oltre ad apparire palesemente al di fuori dei compiti conferiti al Ministero dal d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, e quindi illegittima perché determinata da un soggetto privo del potere di esprimersi in tale ambito, contrasta con l’obbligo di semplificazione amministrativa dettata dalle disposizioni europee in materia di iter autorizzativi di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
La disposizione in argomento impone alle pubbliche amministrazioni coinvolte nel procedimento concessorio di attestare che la concessione è stata rilasciata nel rispetto della normativa vigente ed in particolare dell’art. 12 bis del R.D. 1775/1933. Si chiede, così, all’amministrazione la dichiarazione di conformità del proprio provvedimento agli obblighi imposti dalla legge, quando tale legittimità è già imposta e presunta direttamente dalla legge stessa, sfociando in un inutile ed irragionevole aggravio dell’iter amministrativo vietato dalla l. 241/1990 e dalle direttive in materia di energia da fonte rinnovabile. Del resto l’amministrazione concedente può e deve rilasciare la concessione solo dove abbia positivamente valutato il rispetto di tutti gli obblighi di cui oggi il decreto impugnato chiede l’espressa dichiarazione di conformità, motivo per cui tale richiesta dichiarazione appare irragionevole e volta solo ad impedire un più agevole accesso all’incentivazione da parte degli operatori.
5. Nell’allegato 2 al decreto ministeriale 2016, sotto il titolo di impianti oggetto di integrale ricostruzione, riattivazione, rifacimento, potenziamento ed impianti ibridi al punto 1.1.1. è stata inserita la definizione secondo la quale si considerano “impianti interconnessi” tutti quelli che abbiano delle opere idrauliche in comune e siano riconducibili anche a livello societario ad un unico produttore. Con la disposizione in argomento, dunque, si è introdotta un’ingiusta discriminazione fra chi già risulti essere titolare di un impianto idroelettrico rispetto a chi, al contrario, non lo è ancora. Tale disposizione, peraltro facilmente eludibile, inserisce nell’ordinamento un’indiscriminata disparità di trattamento per tutti gli impianti che condividano le opere idrauliche con altro preesistente di proprietà del medesimo operatore, nei confronti di altri impianti posseduti da soggetti terzi, senza che tale scelta possa essere giustificata da una plausibile e legittima motivazione. Tutti gli operatori attualmente titolari di un impianto vengono, di fatto, illegittimamente discriminati a favore dei nuovi soggetti.
La norma appare, quindi, in aperto contrasto con le direttive in materia di liberalizzazione del mercato elettrico ed anche con il d.lgs. 79/1999, oltre che con il principio di massima incentivazione della produzione, posto che l’operatore è disincentivato alla realizzazione di un nuovo impianto qualora questo non sia incentivabile. L’effetto sarà quello che gli impianti in discussione resteranno appannaggio dei soggetti terzi, penalizzando gli attuali produttori senza nessuna ragionevolezza, in palese contrasto, ancora una volta, con gli obblighi imposti dalla disciplina comunitaria, in particolare l’obbligo dell’uso multiplo della risorsa idrica.
6. Il decreto, inoltre, elimina totalmente ogni incentivazione per gli impianti idroelettrici al di sopra dei 5 MW, attraverso una prescrizione assolutamente immotivata che viola apertamente tutte le disposizioni in materia di incentivazione di energia da fonte rinnovabile. La fonte legislativa, infatti, garantisce espressamente il diritto all’incentivazione anche degli impianti superiori alla soglia di 5 MW, mentre il decreto impugnato ha cancellato illegittimamente tale diritto.
In base alla disciplina in vigore risulta evidente che il Ministero ha sì il potere di determinare la soglia che suddivide l’incentivazione a “registro” da quelle ad “aste”, ma non ha assolutamente il potere di eliminare del tutto l’incentivo al di sopra di una determinata soglia per una specifica fonte rinnovabile. La disposizione in argomento viola, così, il principio dell’affidamento che si è ingenerato in alcuni operatori, i quali si sono sempre iscritti a registro con impianti grandi, non risultando mai vincitori benché considerati idonei, ed oggi vedono sfumare le proprie aspettative senza nessun motivo ed in modo del tutto irragionevole ed illegittimo.
7. Con l’art. 22, il decreto ministeriale, infine, introduce per i soggetti che intendono realizzare un impianto su un canale di bonifica o di irrigazione l’obbligo di fornire l’atto previsto dal r.d. 8 maggio 1904 n. 368. In tal modo gli impianti in argomento diventano fatalmente subordinati all’accordo con i consorzi di bonifica o di irrigazione interessati, superando i provvedimenti pro concorrenziali che sono già presenti nel nostro ordinamento sin dal 1933.
Il r.d. 1775/1933, infatti, prevede che spetti all’amministrazione pubblica concedere l’uso delle acque pubbliche, e tale competenza rimane in capo all’amministrazione anche quando l’acqua è già stata concessa ad altri soggetti, in quanto la disponibilità attribuita con il provvedimento di concessione è una disponibilità finalizzata ad un determinato uso.
La disposizione in argomento costituisce, pertanto, un ostacolo immotivato all’accesso al mercato da parte degli operatori in aperto contrasto con le direttive in materia e con i principi interni ed euro unitari in materia di concorrenza.”