Sentenze

Incentivi agli impianti FER sopra i 250 kW, i dubbi del Consiglio di Stato al vaglio della Corte UE

Palazzo Spada dubita della compatibilità tra il meccanismo incentivante “a due vie”, come delineato dall’art. 7, co. 7, del decreto ministeriale del 4 luglio 2019, e l’art. 3 della direttiva n. 2009/28/CE e l’art. 4 della direttiva n. 2018/2001/UE

venerdì 1 marzo 2024 - Redazione Build News

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Con l’ordinanza del 30 gennaio 2024, n. 926, il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia europea alcuni dubbi interpretativi sulla compatibilità con il diritto eurounitario della normativa italiana in materia di incentivi alla produzione di energie rinnovabili.

In particolare, Palazzo Spada ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione pregiudiziale: dica la Corte di giustizia se i principi recati dall’art. 3 della direttiva 2001/28/CE e dall’art. 4 della direttiva 2018/2001/UE ostano o non ostano a una normativa interna, quale l’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 4 luglio 2019, che, nell’ambito di un regime nazionale di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili, preveda, con riferimento a fattispecie in cui i produttori vendono l’energia sul libero mercato, un meccanismo incentivante (c.d. “a due vie”) in forza del quale, rispetto ai soli impianti di nuova costruzione di potenza pari o superiore a 250 kW, l’incentivo è calcolato come differenza tra la tariffa spettante all’impresa (determinata tenendo conto, da un lato, delle tariffe di riferimento previste per ciascuna tipologia d’impianto e d’intervento, dalla normativa applicabile e, dall’altro, delle riduzioni offerte al ribasso dall’operatore nell’ambito delle procedure di asta o registro, nonché delle ulteriori decurtazioni previste in via generale dalla normativa interna) e il prezzo zonale orario, con conseguente obbligo di riversare le somme eccedenti il valore della tariffa spettante quando il prezzo zonale orario sia a essa superiore (c.d. “incentivo negativo”).”

L’ordinanza è stata adottata nell’ambito di un giudizio d’appello avente ad oggetto la sentenza del TAR per il Lazio che ha rigettato il ricorso – promosso da una società titolare di un impianto fotovoltaico con potenza di 999,78 kW, di nuova costruzione ed entrato in esercizio il 25 marzo 2022 – avverso il decreto del Ministro dello sviluppo economico del 4 luglio 2019 e del consequenziale contratto stipulato in data 16 giugno 2022, per il riconoscimento di incentivi con il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) nella parte in cui prevedono che «nel caso in cui il valore dell’incentivo, ottenuto come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario, risulti negativo, il GSE provvederà a chiedere al soggetto responsabile la restituzione di tale differenza”.

Il Consiglio di Stato ha prospettato la sussistenza di seri dubbi di un conflitto tra la normativa interna, dalla cui applicazione dipende la decisione sull’appello, e quella eurounitaria, rendendosi, pertanto, necessario effettuare il rinvio pregiudiziale d’interpretazione di cui all’art. 267 del TFUE.

Il Collegio dubita della compatibilità tra il meccanismo incentivante “a due vie”, come delineato dall’art. 7, co. 7, del decreto ministeriale del 4 luglio 2019, da un lato, e l’art. 3 della direttiva n. 2009/28/CE e l’art. 4 della direttiva n. 2018/2001/UE, dall’altro.

I dubbi del Consiglio di Stato

Il dubbio sulla compatibilità tra il diritto nazionale e le suddette direttive discende da tre considerazioni.

In primo luogo, che, alla luce del diritto dell’Unione, il meccanismo incentivante dovrebbe agevolare la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili, favorendo l’investimento nella realizzazione di nuovi impianti o nel potenziamento di quelli esistenti, mediante un contributo pubblico a sostegno dei relativi costi (i quali vengono così posti parzialmente a carico della collettività in ragione delle esternalità positive che si ricollegano alla transizione ecologica), mentre l’incentivo negativo configurato dall’art. 7, co. 7, del decreto ministeriale del 4 luglio 2019 comporta che, nel caso in cui il prezzo zonale orario dell’energia aumenti, le imprese, pur avendo effettuato degli investimenti, non ottengono alcuna sovvenzione che ne riduca il costo, anzi debbano riversare al GSE parte degli introiti derivati dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta, con la conseguenza che queste potrebbero essere indotte ad abbandonare l’incentivo, così compromettendo il raggiungimento dei risultati perseguiti dalle direttive.

In secondo luogo, che l’incentivo negativo non può considerarsi una contropartita della garanzia di una tariffa costante, considerato che l’impresa vende l’energia sul mercato, soggiace alle sue dinamiche ed è esposta ai relativi rischi, dunque l’obbligo di versare la differenza tra il prezzo zonale orario e la tariffa spettante al singolo operatore potrebbe pregiudicarne la capacità di reazione alle dinamiche del mercato: per questo, si dubita vi sia un contrasto con il criterio, posto dalle direttive, di configurare i regimi di sostegno in modo da rispondere ai segnali di mercato, evitando inutili distorsioni.

In terzo luogo, che la tariffa “a due vie”, la quale può tradursi nell’applicazione dell’incentivo negativo, è imposta quale unico meccanismo incentivante per tutti gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW, mentre i titolari di impianti di potenza inferiore possono optare per il diverso regime che prevede il ritiro dell’energia da parte del GSE con corresponsione della tariffa spettante a loro favore: da questo deriva il dubbio sulla compatibilità con la prescrizione, posta dalle direttive, di configurare regimi di sostegno non discriminatori.

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