L'articolo 54, comma 3, secondo periodo, del Tuir prevede che “per gli immobili utilizzati promiscuamente, a condizione che il contribuente non disponga nel medesimo comune di altro immobile adibito esclusivamente all'esercizio dell'arte o professione, è deducibile una somma pari al 50% della rendita ovvero...del relativo canone”.
Nel caso sul quale si è pronunciata la Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza 6975/1/2014 (depositata il 18 dicembre), l'immobile secondo il contribuente era destinato ad uso promiscuo per l'attività forense. Per gli anni dal 2001 al 2006 il contribuente aveva visto riconosciuta la non assoggettabilità all'Irap, mentre era pendente il ricorso contro l'avviso di accertamento dell'Agenzia delle Entrate per l'anno 2007. I collaboratori dello studio potevano svolgere la propria attività professionale sia presso la sede dello studio sia presso il proprio domicilio, attraverso il collegamento alla rete di studio.
Nella sentenza la Ctr della Lombardia precisa che se un lavoratore autonomo dispone, a qualunque titolo, di un immobile dove svolge la propria professione, non può operare la presunzione che egli utilizzi promiscuamente la propria abitazione; pertanto, non può essere detratto nulla dei relativi costi.
Nel caso in esame l'attività del contribuente si svolge in uno studio legale attrezzato e ciò non gli consente di giovarsi della presunzione di un uso promiscuo del proprio alloggio. La ratio della norma è infatti quella di evitare la detrazione di spese che non attengono all'attività professionale.
Una singola fattura non può essere considerata una prova in quanto non dice nulla circa il luogo di svolgimento dell'attività; quindi il contribuente non ha fornito nessuna prova sull'effettivo utilizzo della propria abitazione come luogo di svolgimento dell'attività professionale, fatto che non si può presumere stante la pacifica disponibilità di uno studio legale ben attrezzato.
SENTENZA DELLA CASSAZIONE. Sempre in tema di Irap, una recente sentenza della Corte di Cassazione – n.1662 depositata il 28 gennaio 2015 (vedi allegato) – ha chiarito che non sussiste il requisito impositivo dell’autonoma organizzazione qualora non si configuri un’ipotesi di esercizio in forma associata di un’arte o di una professione, bensì una forma di mera condivisione di servizi (e delle relative spese) tra soggetti ognuno dei quali svolge autonomamente la propria attività, trattenendone interamente il relativo reddito e senza alcuna partecipazione al reddito derivante dall’attività degli altri.
Nel caso analizzato, la suprema Corte ha stabilito che è corretta la negazione del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione in capo ad un medico di medicina generale convenzionato con il servizio sanitario nazionale per il fatto che il medesimo si avvalga, in comune con altri professionisti, di “sedi attrezzature e personale amministrativo”. Infatti, osservano gli Ermellini, “l’apporto recato all’attività del professionista dalle suddette risorse materiali e umane integra il requisito impositivo dell’autonoma organizzazione solo ove esso ecceda, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale”. Una circostanza che nel caso in esame è esclusa.