È indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo.
Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 183 depositata oggi (redattrice la vice Presidente Silvana Sciarra), con la quale, pur dichiarando inammissibili le censure del Tribunale di Roma sull’indennità prevista dal cosiddetto Jobs Act per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, viene rivolto al legislatore un monito ad intervenire con urgenza in questa materia, predisponendo tutele adeguate.
La Corte ha rilevato che «un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda» e non rappresenta un rimedio congruo e coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività affermati dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020 della stessa Corte.
«Il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti». Tale criterio, «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi», non è indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro e non offre neppure elementi significativi per determinare l’ammontare dell’indennità secondo le peculiarità di ogni singola vicenda.
Tuttavia, spetta alla valutazione discrezionale del legislatore la scelta delle soluzioni più appropriate per garantire tutele adeguate. Di qui l’urgenza di una riforma, sollecitata dalla Corte.
Lo stesso Tribunale di Roma prefigura molteplici soluzioni per porre rimedio ai profili di contrasto con la Costituzione. Soluzioni che spaziano dalla ridefinizione di un criterio distintivo, incentrato sul numero degli occupati, all’eliminazione del regime speciale e alla ridefinizione delle soglie.
A ciascuna delle scelte ipotizzabili corrispondono «differenti opzioni di politica legislativa», frutto di «valutazioni discrezionali», scrive la Corte. Che, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni, segnala: «Il protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile». Pertanto, qualora la questione fosse riproposta, essa stessa provvederà direttamente a intervenire sulla disciplina censurata.
IN ALLEGATO la sentenza della Consulta.