Il 29 luglio scorso, l’Assemblea del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha approvato le Linee guida concernenti la predisposizione del progetto di fattibilità tecnico-economica per accelerare l’affidamento di opere e interventi del PNRR e PNC.
Secondo Finco però nelle recenti Linee Guida è presente “un’inaccettabile lesione di una delle poche libertà ormai rimaste alle imprese”. La Federazione si riferisce all'impropria attribuzione della facoltà alle Stazioni Appaltanti di stabilire quale sia il CCNL da applicare da parte dell'appaltatore che partecipa a una gara nell’ambito delle opere PNRR. In particolare, laddove si prevede che la Stazione Appaltante, con il supporto del progettista, stabilisca, “nell’ambito delle clausole dirette a regolare il rapporto tra detta Stazione e l’appaltatore”, anche il Contratto Collettivo Nazionale di lavoro da applicare.
I dubbi sul Contratto Collettivo Nazionale
Al di là della relativa “incompetenza” in materia del Dicastero – commenta Finco in una nota – il rischio (ma forse l’auspicio da parte di alcuni, in particolare, di coloro che governano le Casse Edili) è che di contratto ne venga chiesto uno solo; ma non tutte le attività che vengono svolte in cantiere sono e/o devono essere inquadrate nel settore dell’edilizia, dal momento che questa è solo una parte del più vasto settore delle costruzioni che di anime professionali e, per conseguenza, di contratti ne possiede vari.
Dalle attività metalmeccaniche dell’impiantistica, piuttosto che delle costruzioni metalliche, a quelle del restauro e della prefabbricazione (acciaio, cemento, legno) – solo per fare alcuni esempi – è vasto il panorama delle attività che sono parte delle costruzioni ma non sono edilizia.
I criteri della Maggiore rappresentatività
Peraltro i criteri della “maggiore rappresentatività” – prosegue la Federazione – oltre ad essere difficilmente verificabili nella sostanza, sono storicamente superati: in taluni casi è certamente più efficace avere un CCNL che risponda realmente ai bisogni dei diversi settori (anche a livello di contrattazione decentrata) piuttosto che supportare contenitori omnicomprensivi lontani dalle realtà aziendali.
I contratti nazionali collettivi di lavoro, in quanto sottoscritti da soggetti non forniti di personalità giuridica (sono notoriamente associazioni di fatto) non hanno peraltro validità erga omnes, ma solo inter partes. Pare, pertanto, curioso che un terzo, quale la stazione appaltante, possa imporre alle parti naturali la propria volontà circa la sfera di applicazione di tali contratti. Particolarmente ove tale volontà non sia condivisa da almeno una delle parti, quella datoriale.
Visto che l’appaltatore pubblico ha, secondo il Codice Civile, una totale autonomia contrattuale nella gestione dell’appalto, come può il committente imporgli il contratto di lavoro da applicare, soprattutto quando tale imposizione contrasta le specializzazioni presenti nei cantieri, che obbediscono a regole tecniche e organizzative del lavoro che seguono lo stato dell’arte e relativi contratti di lavoro specializzati?
Quale è la logica che fa “padroneggiare“ i luoghi (v. cantiere edile) piuttosto che la specialità delle singole lavorazioni, peraltro obbligatoriamente qualificate negli appalti pubblici con l’acronimo OS (opere specialistiche)?
Questo – è appena il caso di sottolineare – non vuol dire supportare meccanismi di dumping sociale ma prendere atto del fatto che la realtà del mondo del lavoro è cambiata e che sempre più spesso si deve andare verso la specializzazione.
Non è un caso che l’art. 30, comma 4 del Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 50/16) riconosca esplicitamente la specificità delle contrattazioni, prevedendo che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.
La razionalizzazione e qualificazione delle Stazioni Appaltanti
La previsione del Codice dei Contratti non nasce a caso, ma risponde al bisogno di individuare e tutelare la maggiore qualità e professionalità delle maestranze e delle imprese impegnate in lavori specialistici e superspecialistici.
Tale decisione ministeriale, su cui ha pesato evidentemente il prevalente, se non esclusivo, ascolto delle parti sindacali dei lavoratori, configura una ingiustificata compressione della libertà economica di cui all’articolo 41 della nostra Costituzione (di cui occorrerebbe ricordarsi non solo quando fa comodo), senza alcuna motivazione di sicurezza o dignità del lavoro. Si tratta, inoltre, di argomento assolutamente fuori tema.
Allora perchè non inserire nelle Linee Guida la necessità di razionalizzazione e diminuzione delle Stazioni appaltanti, orientamento già politicamente a più riprese approvato? Su questo si tornerà più avanti.
Sarà peraltro bene ricordare che – anche se queste Linee Guida si applicano al momento ai “soli” (si fa per dire, vista l’ingentissima mole di risorse a disposizione in tale ambito) interventi previsti dal PNRR - per pubblica ammissione dello stesso Ministro Giovannini, l’obiettivo è di estenderle a tutti i lavori previsti dal Codice dei Contratti Pubblici.
Annoso quanto irrisolto è appunto il citato tema della razionalizzazione e qualificazione delle Stazioni Appaltanti, la cui progressiva riuscita avrebbe un indubbio effetto positivo sulla capacità di valutazione progettuale da parte delle medesime.
Un richiamo a tale aspetto, piuttosto che al non pertinente tema della contrattazione sarebbe stato certamente più utile. Ma si sa che è un tema impopolare, mentre nel primo caso ci si disinteressa delle imprese e si fa contento il Sindacato.
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