“Come correttamente osservato dal GSE, un impianto che usa una sostanza/biomassa liquida è un impianto a bioliquidi e non un impianto a biomassa o un impianto biogas”.
Lo ha precisato la Sezione Terza Ter del Tar Lazio nella sentenza n.1806/2021 pubblicata ieri.
La controversia si incentra sulla qualificazione della fonte di alimentazione dell’impianto - olio da cucina usato – come bioliquido o biomassa.
Come già affermato dalla Sezione Terza Ter del Tar Lazio in fattispecie del tutto analoga (Tar Lazio, III ter, 25 ottobre 2018, n. 10358), secondo la definizione legislativa (art. 2, d.lgs. n. 28/2011) biomassa è la “frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”; il bioliquido rientra invece nei “combustibili liquidi per scopi energetici diversi dal trasporto, compresi l’elettricità, il riscaldamento ed il raffreddamento, prodotti dalla biomassa”.
In base a tali definizioni il bioliquido è dunque una sostanza che proviene da un processo di trasformazione e lavorazione della biomassa (“prodotti dalla biomassa”).
Tale qualificazione è del resto in linea con quanto previsto dalle Procedure applicative del GSE (adottate ai sensi dell’art. 24, d.m. 6 luglio 2012, come aggiornate in data 13 gennaio 2014) ove è stato espressamente precisato che “gli oli vegetali derivanti dalla spremitura di semi ottenuti come scarti da processi di lavorazione di prodotti di “Tipo a”, anche nell’eventualità in cui questi fossero ricompresi nella Tabella 1–A, non possono considerarsi sottoprodotti di “Tipo b” in quanto, come tutti gli oli, essendo combustibili liquidi, sono da ricomprendersi nella categoria dei bioliquidi e pertanto non soggetti alla classificazione di cui all’articolo 8, comma 4 del Decreto, ma ai criteri di sostenibilità di cui all’articolo 38 del d.lgs. 28/2011”.
Ed è così che, conseguentemente, al successivo punto 1.3.5.5 delle medesime Procedure il GSE rileva a titolo esemplificativo coma “gli oli vegetali, tra i quali anche gli oli esausti di friggitoria, ricadono nel perimetro dei combustibili liquidi ottenuti dalla biomassa e pertanto possono accedere agli incentivi previsti dal D.M. 6 luglio 2012 a condizione che rispettino i criteri di sostenibilità di cui all’articolo 38 del D.lgs. 28/2011.”
Il Tar Lazio osserva peraltro che l’olio di cottura non può farsi neanche rientrare nelle sostanze elencate nella citata Tab. 1 allegata al d.m. 6 luglio 2012 che elenca “i sottoprodotti/rifiuti utilizzabili negli impianti a biomasse e biogas”, elencazione nella quale non è richiamato l’olio vegetale esausto.
Priva di pregio è la tesi secondo cui l’olio da cucina rientrerebbe nel novero dei “rifiuti da cucina e ristorazione” in quanto detti rifiuti sono solamente quelli che in base alle stesse disposizioni del decreto hanno “origine animale”, diversamente dall’olio che, pacificamente, deriva dalla trasformazione di semi/frutti di origine vegetale.
Né l’olio da cucina può ritenersi un sottoprodotto secondo la definizione di legge di cui all’art. 184bis d.lgs. 152/2006; non viene infatti rispettata la condizione di cui alla lett. b) (“è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”), trattandosi di sostanza usualmente destinata “a smaltimento”.
Non viene neanche realizzata la condizione di cui alla lett. c) del medesimo articolo (“la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”) in quanto per l’utilizzo quale carburante è necessaria un’ulteriore operazione di filtraggio.
E’ indicativo peraltro che nella stessa tabella allegata al decreto tra “i sottoprodotti provenienti da attività alimentari ed agroindustriali” utilizzabili in impianti a biomasse in relazione a quelli derivanti dalla “trasformazione delle olive” e dalla “lavorazione di frutti e semi oleosi” - ambiti evidentemente coincidenti con quello di cui si tratta - non si indica l’olio esausto bensì elementi di natura diversa (rispettivamente “sanse, sanse di oliva disoleata, acque di vegetazione” e “pannelli di germe di granoturco, lino, vinacciolo”).
In conclusione, dunque, come correttamente osservato dal G.S.E., un impianto che usa una sostanza/biomassa liquida è un impianto a bioliquidi e non un impianto a biomassa o un impianto biogas e pertanto non è applicabile, come invece sostiene parte ricorrente, quanto previsto dall’art. 8, comma 4, del decreto, che è riferibile a soli impianti a biomassa e biogas, bensì, l’art. 8, comma 1, secondo cui “per gli impianti alimentati da bioliquidi sostenibili, l’accesso ai meccanismi di incentivazione di cui al presente decreto è subordinato al rispetto e alla verifica dei criteri di sostenibilità, da effettuarsi con le modalità di cui all’articolo 38 del decreto legislativo n. 28 del 2011”.
In allegato la sentenza