“Ai sensi dell' art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall' art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968”.
Lo ha ricordato la quarta sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n.6388/2018 che richiama i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia.
Palazzo Spada ha ribadito inoltre che “l'aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell'immobile, ma anche nel caso in cui, come nella fattispecie, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti”.
In adesione alla giurisprudenza prevalente (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2001, n. 6411), il Collegio ha affermato infine che, “ai fini della individuazione del mutamento di destinazione d’uso che causerebbe, in ragione del passaggio ad una diversa categoria funzionale, l’aumento del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione), non possa prescindersi dalla valutazione dell’utilizzo in concreto dell’immobile e, nel caso in cui questo svolga una funzione servente per un diverso immobile, della natura e della destinazione d’uso di quest’ultimo”.
In allegato la sentenza