Sentenze

Opere interne e cambi di destinazione d'uso: la Consulta boccia la legge dell'Umbria

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime varie disposizioni della legge della Regione Umbria 21 gennaio 2015, n. 1 “Testo unico governo del territorio e materie correlate”

venerdì 6 aprile 2018 - Redazione Build News

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Con la sentenza n. 68/2018 depositata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una serie di norme della legge della Regione Umbria 21 gennaio 2015, n. 1 (Testo unico governo del territorio e materie correlate).

La Consulta ha bocciato:

- gli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali ed attuativi dei Comuni siti in zone sismiche;

- l’art. 59, comma 3;

- l’art. 118, comma 1, lettera e), nella parte in cui non prevede che le «opere interne alle unità immobiliari di cui all’art. 7, comma 1, lettera g)», siano sottoposte alla comunicazione di inizio dei lavori asseverata (CILA);

- gli artt. 147 e 155 e l’art. 118, comma 2, lettera h), quest’ultimo nel testo impugnato e nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art. 26, comma 7, della legge della Regione Umbria 23 novembre 2016, n. 13 (Modificazioni ed integrazioni alla legge regionale 21 gennaio 2015, n. 1 – Testo unico governo del territorio e materie correlate);

- l’art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli artt. 201, commi 3 e 4; 202, comma 1, e 208;

- gli artt. 258 e 264, comma 13;

- l’art. 264, commi 14 e 16.

Riportiamo due parti del testo della sentenza relative alle opere interne e ai cambi di destinazione d'uso.

OPERE INTERNE. “10.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, poi, impugnato l’art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui annovera tra gli interventi di attività edilizia libera le «opere interne alle unità immobiliari di cui all’art. 7, comma 1, lettera g)».

La citata disposizione regionale contrasterebbe con i principi fondamentali in materia di «governo del territorio», stabiliti dal legislatore statale nell’art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, che assoggetta a comunicazione di inizio lavori cosiddetta “asseverata” «gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne e lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio».

10.1.– La questione è fondata.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio", vincolando così la legislazione regionale di dettaglio» (sentenza n. 282 del 2016; nello stesso senso, fra le tante, sentenze n. 231 del 2016, n. 49 del 2016 e n. 259 del 2014). Pertanto, «pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia» (sentenza n. 231 del 2016).

In linea con tale orientamento, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una normativa regionale, analoga a quella ora in esame, che escludeva dall'obbligo di comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato (CILA) nonché di comunicazione semplice (CIL) «le opere interne a singole unità immobiliari, ivi compresi l'eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscono elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici», per contrasto con i principi fondamentali della materia contenuti nell’art. 6, comma 2, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sentenza n. 282 del 2016).

Quest’ultimo, infatti, pur intitolato «[a]ttività edilizia libera», assoggettava (congiuntamente con il comma 4, nel testo in vigore nel momento della proposizione del ricorso) «gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici» alla comunicazione di inizio dei lavori asseverata (CILA).

Dopo la proposizione del ricorso, le disposizioni (commi 2 e 4 dell’art. 6) indicate come parametro interposto sono state abrogate dall’art. 3, comma 1, lettera b), n. 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 recante «Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124», senza che mutasse il quadro normativo dei principi fondamentali di riferimento della materia. L’art. 3, comma 1, lettera c), del citato d.lgs. n. 222 del 2016 ha infatti introdotto l’art. 6-bis nel d.P.R. n. 380 del 2001, che ha confermato il regime di CILA già previsto per i predetti interventi.

La norma regionale impugnata, pertanto, là dove prescrive per le cosiddette opere interne un regime di edilizia totalmente libera, escludendo la CILA, contrasta con i principi fondamentali della materia fissati dal legislatore statale. Infatti, come si è già precisato con riguardo agli interventi sottoposti a regime di edilizia libera, le Regioni non possono «differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a CIL e CILA» (sentenza n. 231 del 2016). L’«omogeneità funzionale della comunicazione preventiva […] rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive – al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi – la natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio», in quanto volto a garantire l’interesse unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231 del 2016).

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui annovera tra gli interventi di attività edilizia libera le «opere interne alle unità immobiliari di cui all’art. 7, comma 1, lettera g)», escludendo la sottoposizione di esse alla CILA.

CAMBI DI DESTINAZIONE D'USO. “11.– Sono, altresì, impugnati gli artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h), della citata legge regionale n. 1 del 2015, nella parte in cui disciplinano i mutamenti di destinazione d’uso, per violazione degli artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost.

Tali disposizioni, nella parte in cui definiscono gli interventi di mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante e identificano i titoli abilitativi necessari e le sanzioni da irrogare nel caso di violazione del prescritto regime, si porrebbero in contrasto con la normativa statale che contiene i principi fondamentali in materia di governo del territorio ed inciderebbero nell’ambito di applicazione delle sanzioni amministrative, civili e penali previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (agli artt. 33, 36, 37 e 44), con conseguente invasione della potestà legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale (art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.) e in violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

11.1.– In linea preliminare, occorre sottolineare che la modifica apportata all’art. 118, comma 2, lettera h), dall’art. 26, comma 7, della legge reg. Umbria n. 13 del 2016, non ha inciso sulla portata prescrittiva, né sul tenore letterale della disposizione medesima, limitandosi al mero mutamento del segno di punteggiatura finale della stessa. Ciò induce, dunque, questa Corte ad estendere il proprio scrutinio anche al testo ora vigente dell’art. 118, comma 2, lettera h), della citata legge regionale.

11.2.– Nel merito, la questione è fondata.

Le norme regionali impugnate dettano la disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso degli edifici e delle unità immobiliari, identificandone le tipologie, individuando i relativi titoli abilitativi richiesti e le connesse sanzioni.

Posto che una simile operazione è assimilabile alla classificazione delle categorie di interventi edilizi o urbanistici, valgono anche in tal caso le indicazioni espresse da questa Corte con riguardo alla disciplina del governo del territorio, secondo cui «sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)» (sentenza n. 259 del 2014). Lo spazio di intervento che residua al legislatore regionale è quello di «esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali», a condizione, però, che tale esemplificazione sia «coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia» (sentenza n. 49 del 2016).

Occorre verificare se, nella specie, sussista una tale coerenza.

L’art. 23-ter del d.P.R. n. 380 del 2001 è stato inserito dall’art. 17, comma 1, lettera n), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 2014, n. 164, con l’obiettivo di uniformare le differenti normative regionali e semplificare l’applicazione della disciplina anche nel segno della liberalizzazione. Tale articolo ha definito come «mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale». Ha inoltre identificato cinque categorie funzionali così qualificate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale. Ha poi disposto che «[s]alva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito» (comma 3).

Quanto alla normativa regionale denunciata, occorre rilevare che l’art. 155, al comma 3, definisce come mutamenti della destinazione d’uso di edifici o di singole unità immobiliari tutti quegli interventi che comportano il passaggio da una categoria funzionale all’altra, «indipendentemente dalle diverse tipologie di attività riconducibili alle stesse», in armonia con la normativa statale. Ma individua le categorie funzionali nelle tre seguenti: «a) residenziale; b) produttiva, compresa quella agricola; c) attività di servizi come definite all’articolo 7, comma 1, lettera l)». Al comma 4, il medesimo art. 155, inoltre, indica i titoli abilitativi richiesti per gli interventi di mutamento di destinazione d’uso – per la cui assenza sono stabilite le specifiche sanzioni dall’art. 147 ? e li identifica nella «SCIA nel caso di modifica della destinazione d’uso o per la realizzazione di attività agrituristiche o di attività connesse all’attività agricola, realizzate senza opere edilizie o nel caso in cui la modifica sia contestuale alle opere di cui all’articolo 118, comma 1» (lettera a); nel permesso di costruire o nella SCIA, «in relazione all’intervento edilizio da effettuare con opere, al quale è connessa la modifica della destinazione d’uso» (lettera b).

L’art. 118, comma 2, lettera h), stabilisce, infine, che gli eventuali mutamenti di attività tra le destinazioni d’uso consentite all’interno delle richiamate tre categorie sono eseguiti senza titolo abilitativo, previa comunicazione al Comune competente prima dell’inizio dei lavori o delle attività.

L’esame congiunto delle normative – statale e regionale – evidenzia con chiarezza che la normativa regionale impugnata, non solo non si rivela coerente con le definizioni contenute nel d.P.R. n. 380 del 2001, ma si pone in contrasto con le stesse e quindi con i principi fondamentali espressi da quest’ultimo.

Mentre il legislatore statale individua cinque categorie funzionali e stabilisce che il passaggio dall’una all’altra costituisce mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, il legislatore regionale umbro ne individua solo tre, che risultano dall’accorpamento di alcune di quelle individuate dal legislatore statale (sono accorpate nella medesima categoria funzionale dei “servizi” tutte le attività «a carattere socio-sanitario, direzionale, pubbliche o private atte a supportare i processi insediativi e produttivi, comprese le attività commerciali, di somministrazione di cibi e bevande, turistico-produttive, ricreative, sportive e culturali»: art. 7, comma 1, lettera l).

Ciò comporta l’esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle categorie funzionali accorpate e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell’ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h), della citata legge reg. Umbria n. 1 del 2015.”

La sentenza n. 68/2018 della Corte costituzionale

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