Sentenze

Professionisti, ok dalla Cassazione alle prestazioni gratuite

Secondo la Cassazione, in presenza della corretta tenuta della contabilità da parte del contribuente, è plausibile la gratuità dell'opera svolta dal professionista, in considerazione dei “rapporti di parentela e di amicizia”. L'analisi della Fondazione nazionale dei commercialisti

martedì 21 febbraio 2017 - Redazione Build News

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Con il documento “L'accertamento delle prestazioni rese a titolo gratuito dal professionista” - IN ALLEGATO -, la Fondazione nazionale dei commercialisti ripercorre il quadro normativo di riferimento relativo alle prestazioni professionali gratuite e analizza alcune delle principali e delle più recenti pronunce giurisprudenziali.

“Di recente l’Amministrazione Finanziaria – osserva la Fondazione nazionale dei commercialisti - sembra essersi particolarmente interessata alle prestazioni rese a titolo gratuito dai professionisti. In generale, sembra che l’atteggiamento degli Uffici sia quello di un certo scetticismo nell’ipotesi in cui i professionisti sostengono di lavorare gratuitamente, per amicizia o per legami di parentela, giacché tali comportamenti sarebbero in realtà poco razionali e celerebbero proventi incassati in evasione d’imposta”.

La giurisprudenza di legittimità “si è pronunciata sul tema con la sentenza del 28 ottobre 2015, n. 21972. A tale pronuncia, peraltro, hanno fatto seguito diverse sentenze della giurisprudenza di merito, non sempre del tutto coerenti con gli insegnamenti della Suprema Corte”.

Del documento riportiamo di seguito il paragrafo sulla sentenza della Corte di Cassazione del 28 ottobre 2015, n. 21972 e il paragrafo con le considerazioni conclusive.

La sentenza della Cassazione n. 21972/2015

“La controversia ha origine da un accertamento, ai fini IRPEF, IRAP e IVA, effettuato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un consulente fiscale per non aver fatturato a 72 clienti talune prestazioni (invio telematico delle dichiarazioni).

Il contribuente ricorreva presso la CTP deducendo che le prestazioni erano state rese a titolo gratuito nei confronti di partenti ed amici; inoltre, che la maggior parte dei soggetti (il 70%), che avevano beneficiato gratuitamente dell’attività del professionista, già corrispondeva al medesimo professionista il compenso per la tenuta della contabilità delle società ad essi riconducibili, cosicché, la prestazione resa, anche in un’ottica di “incremento della clientela”, era assorbita nella remunerazione complessivamente pattuita.

Sebbene in primo grado i giudici della CTP avessero avallato l’operato dell'Amministrazione Finanziaria, in secondo grado, la decisione è stata ribaltata e poi resa definitiva in sede di giudizio legittimità.

I giudici della Suprema Corte, richiamando e confermando in toto la pronuncia di secondo grado, hanno, infatti, affermato che, in presenza della corretta tenuta della contabilità da parte del contribuente, è plausibile, a fronte delle mere supposizioni dell'Ufficio erariale, la gratuità dell'opera svolta dal professionista, in considerazione dei “rapporti di parentela e di amicizia” con gli stessi clienti, nonché del fatto che alcuni di tali clienti erano soci di società di persone, la cui contabilità era affidata alle cure del contribuente, per cui ogni eventuale compenso rientrava in quello già corrisposto dalla società di appartenenza.

Inoltre, la “plausibilità” delle prestazioni rese a titolo gratuito emerge, secondo la Suprema Corte, della circostanza che l'attività svolta in loro favore riguardava “soltanto l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ed era finalizzata all'incremento della clientela, cosicché la semplicità della prestazione in sé rende verosimile l'assunto del contribuente circa la sua gratuità”.

In estrema sintesi, secondo la Suprema Corte, l’Amministrazione Finanziaria non può accertare un maggior reddito in capo ad un consulente sulla base della semplice presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare i propri servizi a titolo gratuito. È plausibile, infatti, che un professionista possa svolgere parte della propria attività senza percepire alcun compenso, per ragioni di amicizia, parentela o di mera convenienza.”

Le considerazioni conclusive della Fondazione nazionale dei commercialisti

“Dalla giurisprudenza sin qui analizzata, possono essere tratte alcune brevi considerazioni.

Innanzitutto, l’accertamento induttivo teso a ricostruire i compensi del professionista e fondato esclusivamente sulla presunzione che le prestazioni gratuite nascondano compensi “in nero” non sembra potersi configurare come illegittimo. Sebbene, infatti, risulti senza dubbio opportuno che l’Amministrazione Finanziaria supporti le proprie pretese attraverso ulteriori elementi, la giurisprudenza ha, per lo più, non dichiarato illegittimo un simile operato.

In secondo luogo, la giurisprudenza sembra ritenere “plausibile” che un professionista effettui prestazioni a titolo gratuito nei confronti di parenti, amici o soggetti che già sono clienti (ad altro titolo), purché tali prestazioni siano in un rapporto di minoranza rispetto al totale delle prestazioni rese e che, inoltre, siano caratterizzate da “semplicità”. Così, se l’onere della prova, posto a carico del contribuente sottoposto ad accertamento, può dirsi superato qualora le prestazioni rese gratuitamente (comunque in un rapporto di minoranza rispetto a quelle complessive), siano effettuabili, secondo l’id quod plerumque accidit, senza particolare complessità, dispendio di tempo o abbiano un “valore normale” ridotto, non è così per le prestazioni particolarmente laboriose o di valore ingente, soprattutto se rese nei confronti di soggetti diversi da coloro che sono con il professionista in stretto legame di parentela.

Quanto detto, tuttavia, non implica necessariamente che, qualora il numero di prestazioni rese gratuitamente sia in un rapporto di maggioranza rispetto a quelle a titolo oneroso e/o che tali prestazioni siano, per lo più, “complesse”, il professionista debba essere necessariamente assoggettato a tassazione.

La stessa sentenza della Corte di Cassazione n. 1915 del 2008 ha, in effetti, offerto al contribuente dei possibili “strumenti di difesa”.

In tal senso, sicuramente la predisposizione di lettere di incarico professionale ove si evinca chiaramente la gratuità della prestazione, può essere un valido elemento probatorio. In aggiunta, nel caso di prestazioni rese dai professionisti nei confronti di società, la documentazione societaria (es. delibere che stabiliscono il compenso dell’amministratore, lo statuto, mastrini contabili di cassa o banca e quelli riferiti al professionista) rappresenta un elemento difficilmente superabile dall’Agenzia delle Entrate.

Rimane, però, particolarmente delicato il tema delle prestazioni rese dai professionisti nei confronti di soggetti privati, non tenuti ad obblighi di contabilità e/o di conservazione di documenti. Nei confronti di questi soggetti, oltre alla predisposizione di lettere di incarico professionale e/o dichiarazioni rese dagli stessi, il contribuente non è in grado, generalmente, di produrre ulteriore documentazione. In tali casi, comunque, il professionista potrà addurre la congruità e la coerenza rispetto agli studi di settore ed, eventualmente, produrre documentazione bancaria che possa rappresentare elemento (quantomeno indiziario) circa il fatto che nessun compenso è stato mai incassato.

Non si può nascondere che le soluzioni sin qui prospettate non siano del tutto prive di incertezze e complicazioni pratiche.

Si potrebbe, allora, riflettere sul fatto che, se un professionista effettua prestazioni a titolo gratuito, se, da un lato, non avrà particolari obblighi per quanto riguarda i compensi dal punto di vista dell’IVA, delle imposte dirette e dell’IRAP, dall’altro, dovrebbe considerare l’indeducibilità e l’indetraibilità dei costi sostenuti. Tale problematica potrebbe essere superata determinando un pro-rata per le prestazioni rese a titolo di mera liberalità e, in quanto tali, non necessariamente inerenti: specularmente, all’Amministrazione Finanziaria sarebbe consentito un migliore e più rapido riscontro nei confronti di detti soggetti.

In definitiva, operando secondo le descritte modalità, l’accertamento si sposterebbe dal punto di vista dei proventi presuntivamente incassati a quello dei costi oggettivamente indeducibili (dal punto di vista delle dirette e dell’IRAP) o indetraibili (dal punto di vista dell’IVA), così da render più certa ed obiettiva la tassazione dei professionisti che effettuino prestazioni a titolo gratuito. Ciò comporterebbe una piena rispondenza al principio di cassa delle modalità di determinazione del reddito e di accertamento, evitando, inoltre, che l’Amministrazione Finanziaria ricorra a (quantomeno discutibili) “doppie presunzioni”.”

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