Torniamo a parlare di riforma fiscale il cui iter è cominciato ufficialmente con l’approvazione della legge delega da parte del Consiglio dei ministri lo scorso 5 ottobre. Come noto il cuore della riforma, di cui si dovrebbero vedere i primi passi con la prossima legge di bilancio, è l’Irpef che incide sui Redditi diversi dai redditi di capitale, mantenendo la caratteristica di progressività dettata dalla Costituzione.
Si punta quindi a una graduale riduzione delle aliquote medie effettive che oggi sono ritenute eccessivamente alte e superiori alla media europea.
Per quanto riguarda invece i Redditi da capitale, il proposito è di introdurre una stessa aliquota proporzionale da applicare ai redditi derivanti dall’impiego di capitale, valida anche per il mercato immobiliare, e dall’impiego di capitale nelle attività di impresa e lavoro autonomo esercitate da soggetti diversi da quelli a cui si applica l’Ires.
Tutto questa premessa porta a una domanda. Che cosa succederà al regime forfettario, che allo stato dell’arte rappresenta una deroga alla tassazione Irpef progressiva?
Secondo quanto previsto dalla delega fiscale il regime forfettario non dovrebbe subire cambiamenti dal momento che non sono state recepite le indicazioni fornite dall’indagine conoscitiva redatta dalla commissione finanze di Camera e Senato. L’indagine suggeriva di rivedere il tetto di uscita dal regime forfetario oggi fissato a 65 mila euro ritenuto un deterrente a produrre ulteriori redditi, per evitare appunto il ritorno all’applicazione della tassazione progressiva.
Secondo la commissione finanze l’applicazione del regime forfettario finisce per inibire la crescita dimensionale delle piccole imprese, e quindi contrasta l’obiettivo principale della riforma stessa che è quello di favorire la crescita economica.
Si ragiona per individuare una alternativa all’uscita dal regime in caso di splafonamento: si ipotizza dunque un regime transitorio opzionale della durata massima di due anni durante i quali si potrebbe mantenere la flat tax del 20% a regime o del 10% per le nuove attività, a condizione di aver incrementato il giro d’affari del 10% rispetto a ciascuno degli anni precedenti.
Infine, il riordino delle imposte sostitutive, con l’aliquota uniformata al 23%, non impatterà sul regime forfettario ma come già detto nei giorni scorsi, potrebbe portare a un aumento dell’imposizione fiscale sulle locazioni: dal 21% al 23% per i contratti con cedolare secca e dal 10% al 23% in caso di contratti a canone concordato. Si abbasserebbe di contro il prelievo sui redditi da capitale (capital gain, cedole) che passerebbero dall’attuale 26% al 23%, con l’incognita non ancora sciolta sui titoli di Stato che oggi godono di una aliquota più vantaggiosa, pari al 12,5%.
Franco Metta