Fisco

SOA, sarà cancellato l'obbligo di avere la sede legale in Italia

Nello schema di Legge europea 2015 approvata in via preliminare dal Consiglio dei ministri una norma mira a sanare la procedura di infrazione 2013/4212 avviata dalla Commissione europea

lunedì 7 dicembre 2015 - Redazione Build News

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Stop all'obbligo per le Società Organismi di Attestazione (SOA) di stabilire in Italia la sede legale.

È quanto prevede l’articolo 4 della bozza di disegno di legge europea per il 2015 (recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”), approvata in esame preliminare venerdì scorso dal Consiglio dei ministri.

Al fine di sanare la procedura di infrazione 2013/4212 arrivata allo stadio di messa in mora, avviata dalla Commissione Ue verso l'Italia per aver imposto alle Soa - con il DPR n. 207/2010 Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice Appalti - l'obbligo della sede legale nel territorio italiano, la norma dello schema di Ddl prevede che le Società Organismi di Attestazione abbiano l'obbligo di avere in Italia anche solo una sede operativa e sostituisce il precedente obbligo di stabilire nel nostro Paese la sede legale.

Ricordiamo che la Corte di giustizia europea, con la sentenza del 16 giugno 2015, causa C-593/13, ha stabilito che è contraria al diritto dell’Unione Europea la normativa italiana che obbliga gli organismi di attestazione Soa ad avere la sede legale in Italia (LEGGI TUTTO). Tutto è partito dall'iniziativa di Rina Services SpA, Rina SpA e SOA Rina Organismo di Attestazione SpA che hanno contestato in via giudiziale la legittimità della normativa italiana – DPR n. 207 del 5 ottobre 2010. La sezione quarta dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5213/2013, ha rimesso alla Corte di giustizia europea la questione pregiudiziale in ordine alla compatibilità dell’art. 64 DPR n. 207/2010 con gli articoli 49 e 56 Trattato di funzionamento dell’Unione Europea e con gli artt. 14 e 16 della direttiva 2006/123/CE.

IL PRONUNCIAMENTO DELLA CORTE UE. Nella sentenza del 16 giugno 2015 la Corte europea ha ricordato che la «direttiva servizi» 2006/123/CE vieta agli Stati membri, da un lato, di subordinare l’esercizio di un’attività di servizi sul proprio territorio al rispetto di requisiti discriminatori fondati sulla nazionalità oppure sull’ubicazione della sede legale e, dall’altro, di limitare la libertà del prestatore di scegliere tra essere stabilito a titolo principale o secondario sul territorio di uno Stato membro.

I servizi di attestazione rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva «servizi» e le SOA sono imprese a scopo di lucro che esercitano le loro attività in condizioni di concorrenza e non dispongono di alcun potere decisionale connesso all’esercizio di poteri pubblici. Le attività di attestazione delle SOA non configurano una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di poteri pubblici.

LA NORMATIVA ITALIANA LIMITA LA LIBERTÀ DELLE SOA. Il fatto di imporre che la sede legale del prestatore sia ubicata nel territorio nazionale limita la libertà di quest’ultimo e lo obbliga ad avere il suo stabilimento principale nel territorio nazionale. La Corte sottolinea che, in materia di libertà di stabilimento, la direttiva elenca una serie di requisiti «vietati» (tra cui figurano quelli riguardanti l’ubicazione della sede legale), i quali non possono essere giustificati. Infatti, la direttiva non consente agli Stati membri di giustificare il mantenimento di tali requisiti nelle loro normative nazionali.

Gli Stati membri non possono giustificare, neppure in forza dei principi contenuti nel Trattato FUE, ciò che è vietato dalla direttiva, dato che ciò priverebbe quest’ultima di ogni effetto utile e pregiudicherebbe, in definitiva, l’armonizzazione da essa operata. Infatti, un’eventuale giustificazione basata sui principi del Trattato FUE contrasterebbe con lo spirito della direttiva, ai sensi della quale non è possibile eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento soltanto grazie all’applicazione diretta delle disposizioni del Trattato FUE, a motivo dell’estrema complessità della verifica caso per caso di tali ostacoli. Orbene, ammettere che i requisiti «vietati» dalla direttiva possano comunque essere giustificati in forza del Trattato equivarrebbe a reintrodurre proprio un siffatto esame caso per caso delle restrizioni alla libertà di stabilimento.

Inoltre, il Trattato FUE non impedisce al legislatore dell’Unione, quando adotta una direttiva che, come la «direttiva servizi», implementa una libertà fondamentale, di limitare la possibilità per gli Stati membri di apportare deroghe atte a causare un grave pregiudizio al buon funzionamento del mercato interno.

In conclusione, secondo la Corte di giustizia europea la direttiva «servizi» non ammette una normativa nazionale che impone a tali organismi di avere la loro sede legale nel territorio nazionale.

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