Gli spazi pubblici nascono per soddisfare i bisogni dei cittadini. E coinvolgerli nella progettazione non potrebbe che dare risultati positivi. Un incoraggiamento in tal senso arriva dalla nota società ingegneristica e di progettazione
Arup che, in un articolo pubblicato sul proprio portale a firma Joana Mendo, invita i progettisti a rivolgersi più spesso agli utilizzatori degli spazi.
I software di progettazione non 'ascoltano' i cittadini
Soprattutto in un periodo come quello attuale in cui la progettazione si sta muovendo sempre più (e a buona ragione) verso l’utilizzo di software per la simulazione assistita, il rischio di trascurare il riscontro dei cittadini è grande. E va considerato. Per garantire il successo e la durabilità nel tempo di un’opera- viene sottolineato- “abbiamo bisogno di capire ciò che gli utenti attuali e futuri pensano sulla condizione degli spazi pubblici di accogliere le loro proposte. E soprattutto dobbiamo essere in grado di filtrare queste informazioni per poterle utilizzare in modo efficace nel processo di progettazione.”
Progettisti, tanta capacità tecnica ma quanta di ascolto?
I progettisti hanno ormai raggiunto una capacità tecnica che permette loro di lavorare a livello mondiale e in qualsiasi paese. Questa permeabilità professionale e tecnica non corrisponde, però, sempre ad una capacità di comprendere ed adattarsi alle realtà locali, di interagire con le persone del luogo. Oggi si vive, e si lavora, ad un ritmo frenetico e- domanda provocatoriamente Mendo- ‘stiamo riservando all’ascolto e all’osservazione il tempo che necessitano? E ancora: dovremmo coinvolgere le comunità in workshop dove possano essere presentati e discussi i progetti? Siamo veramente in grado di considerare nella pianificazione le preoccupazioni e i desideri delle persone? Esiste un’alternativa al tradizionale dibattito delle consultazioni pubbliche?
Le buone pratiche del passato. E del presente
Nel medioevo era pratica comune che tutti venissero coinvolti nella realizzazione di un’opera pubblica. All’epoca, poi, artisti, artigiani, professionisti erano di provenienza locale e c’era un grande senso di partecipazione ed appartenenza al luogo e ai suoi ‘beni’.
Negli Stati Uniti, nel corso degli anni ’70- '80, l’urbanista
William Whyte ha applicato metodologie di ricerca sociale per la progettazione degli spazi pubblici. Osservando in modo attento e ravvicinato la vita pubblica urbana, Whyte ha messo in discussione, dimostrando di aver ragione, moltissimi precetti in voga. Come quello che sanciva la necessità di separare i pedoni dai veicoli. Le sue idee sono ancora valide oggi e alcuni dei suoi metodi potrebbero essere ripresi, reinventati e migliorati grazie allo sviluppo tecnologico. E allora perché non farlo?
Un esempio lodevole ed attuale viene dall'architetto e designer urbano danese
Jan Gehl che basa il suo approccio alla costruzione su una profonda conoscenza della vita urbana. Le sue realizzazioni hanno dimostrato di rivoluzionare il modo in cui le persone vivono nelle città. Spazi pubblici vuoti e privi di vita sono diventati, grazie alle sue mani e ai suoi occhi, luoghi vivaci, divertenti, sicuri, e dotati di una identità riconoscibile. Perché accettati e accolti dalla popolazione. Uno fra gli esempi più noti è quello di Times Square, a New York: è di Gehl l'idea di chiudere al traffico la piazza e di dare la possibilità alle persone di fermarvisi e concedersi un pò di tempo per riposarsi, socializzare, osservare.
In alcuni
quartieri del Regno Unito, come quello di Peabody, è stato promosso un modello progettuale basato sulla partecipazione pubblica e in cui ciascun residente ha voce in capitolo. E i risultati sono tangibili, perché i buoni progetti non solo soltanto quelli ben fatti alla carta ma quelli che sanno essere riconosciuti ed apprezzati dai destinatari. Sono loro, i cittadini, a doverli utilizzare e soltanto se ne riconoscono il valore ne avranno cura nel tempo.