Con la sentenza n. 2141 del 8 febbraio 2017, il Tar del Lazio ha accolto tutte le motivazioni del ricorso di Confprofessioni, così come aveva già fatto il Consiglio di Stato nel 2015, sospendendo il decreto del ministero del Lavoro, di concerto con il ministero dell’Economia, che aveva escluso gli studi professionali dal trattamento della Cig in deroga.
«La sentenza del Tar del Lazio assume un significato rilevante per le professioni in Italia», commenta il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella, «perché equipara alla nozione d'impresa i soggetti che svolgono una attività economica con l'impiego di lavoratori dipendenti. Si tratta di un passaggio chiave che legittima la nostra azione di tutela e valorizzazione del ruolo delle libere professioni a garanzia delle libertà costituzionali».
LE OSSERVAZIONI DEL TAR ROMA. Nella sentenza n. 2141/2017 il Tar Lazio rileva come “la disciplina e la giurisprudenza comunitaria abbiano progressivamente ampliato i concetti di “impresa” e di “imprenditore”.
Ai sensi del terzo “Considerando” della Raccomandazione della Commissione europea 2003/362/CE “Occorre precisare che, conformemente agli articoli 48, 81 e 82 del trattato, come interpretati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee si deve considerare impresa qualsiasi entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che svolga un'attività economica, incluse in particolare le entità che svolgono un'attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che svolgono regolarmente un'attività economica”.
Tale definizione è stata ripresa dal Regolamento n. 1303/2013 del 17 dicembre 2013 che ha recepito la definizione di microimprese, piccole e medie imprese contenuta nella Raccomandazione al fine di estendere anche ad esse la possibilità di essere destinatarie deli Fondi Strutturali europei”.
È dunque necessario, osserva il Tar Lazio, “esaminare se le associazioni professionali integrino gli elementi delle microimprese o delle piccole e medie imprese: la Raccomandazione, in primo luogo, prescinde dalla forma giuridica rivestita dalle stesse, per cui appare irrilevante che si tratti di un’associazione o di una società con una qualsiasi forma giuridica. La seconda caratteristica è quella di svolgere “un’attività economica”, la cui nozione può essere ricondotta, a sua volta, alla sussistenza di due elementi, quello di produzione e quello di profitto. E’ indubbio che anche l’attività delle associazioni professionali perviene ad un “prodotto” sia pure immateriale – visto che spesso si tratta di un output di tipo intellettuale - e persegue un profitto per cui è indubbio che anche questo tipo di associazioni rientrano nel concetto di “impresa” nei sensi sopra visti”.
I giudici amministrativi romani evidenziano inoltre che “anche l’ordinamento interno ha riconosciuto sotto svariati profili la riconducibilità e l’applicabilità di istituti di cui sono destinatarie le piccole e medie imprese anche alle associazioni professionali: ad esempio, la legge di stabilità 2016, art. 1 c. 821, ha esteso i fondi europei stanziati fino al 2020 ai liberi professionisti, proprio in quanto equiparati alle piccole e medie imprese come esercenti un’attività economica, a prescindere dalla forma giuridica rivestita.
Dunque, la ratio è quella della equiparazione delle nozioni di impresa e di imprenditore anche ai soggetti che sostanzialmente svolgono un’attività economica con l’impiego di lavoratori dipendenti”.
Il Tar Lazio mette anche in luce che, “come rilevato da parte ricorrente, lo stesso Ministero del Lavoro ha, negli anni, riconosciuto uguali tutele ai lavoratori delle imprese e a quelli dei soggetti ad esse equiparabili (secondo la nozione di imprenditore che ha ricevuto il riconoscimento della giurisprudenza europea) quali le associazioni professionali: si pensi alla possibilità di iscriversi nelle liste di mobilità non indennizzate o di fruire dell’indennità di mobilità in deroga e alla possibilità di ricorrere a taluni contratti di solidarietà; anche la circolare dell’INPS n. 100 del 2 settembre 2014 avvalora la circostanza che al fine dell’individuazione di una serie di tutela per il lavoratori il concetto di imprenditore vada riguardato in concreto, con riferimento all’attività economica esercitata e alla produzioni di servizi che possono anche essere intesi come servizi professionali o di opera intellettuale”.
Per quanto riguarda il profilo della discriminazione della categoria dei liberi professionisti (motivo n. 2), il ricorso “presenta profili di fondatezza poiché la mancata estensione della CIG in deroga si riflette su una delle tutele dei lavoratori dipendenti che risulta diminuita rispetto a quella dei lavoratori dei soggetti imprenditoriali, con una conseguente violazione dei costituzionali di cui agli articoli 2, 3, 4, 35, 38.
Inoltre, la giurisprudenza comunitaria richiamata da parte ricorrente Corte Giustizia CE in causa C-32/02, in materia di licenziamenti collettivi - contrariamente a quanto argomentato dall’Avvocatura erariale che opina in ordine al fatto che gli effetti della sentenza citata andrebbero intesi come riferiti esclusivamente alla necessità di estendere la tutela dei lavoratori contro i licenziamenti collettivi - risulta estensibile nella sua ratio anche al caso all’esame poiché il decreto interministeriale impugnato in parte qua, finisce con il determinare una nuova sperequazione a danno di lavoratori dipendenti da soggetti assimilabili a quelli imprenditoriali secondo la nozione classica dell’art. 2082 c.c.”.
AVVIO DI UN FONDO DI SOLIDARIETÀ. «Se la decisione dei giudici amministrativi mette la parola fine alla vicenda degli ammortizzatori sociali in deroga negli studi professionali» aggiunge Stella «Confprofessioni continuerà ad attuare misure di protezione a tutela dei lavoratori degli studi professionali, perché la crisi del comparto non è ancora conclusa. In questo ambito, il prossimo passaggio vedrà l’avvio di un fondo di solidarietà di settore che opererà in sinergia con gli altri strumenti della bilateralità per coniugare efficacemente politiche attive e politiche passive del lavoro».
In allegato la sentenza n. 2141/2017 del Tar Lazio