Apre i battenti la 15esima Mostra Internazionale di Architettura. Un'edizione particolarmente attesa perché di rottura rispetto alle precedenti e che per sei mesi- l'apertura al pubblico è prevista da domani, 28 Maggio fino al 27 Novembre- metterà in mostra la semplicità, nel senso di un'architettura che ricerca la concretezza e che torna al suo significato primordiale, quello di mezzo per dare delle risposte a bisogni abitativi. Il merito di questa inversione rispetto al 'fasto' delle passate kermesse dominate dalla spettacolarità e della sperimentazione è del curatore Alejandro Aravena, giovane architetto cileno con il debole per l'edilizia social-popolare. Coerentemente con la sua visione dell'architettura, definita 'di frontiera', il titolo scelto per la Biennale è “Reporting from the front” e si pone l'obiettivo di raccontare al pubblico di addetti ai lavori e non cosa significa migliorare la qualità della vita mentre si lavora al limite, in circostanze difficili, affrontando sfide impellenti.
Abbiamo lamentato più volte, aprendo le scorse Biennali – ha commentato il Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta nel corso della conferenza stampa di apertura- che il tempo presente sembrava caratterizzarsi per un crescente scollamento tra architettura e società civile. In diverso modo le passate Biennali se ne sono occupate. Con questa Biennale vogliamo indagare in modo più esplicito se e dove vi sono fenomeni che mostrino una tendenza contraria di rinnovamento; si va alla ricerca di messaggi incoraggianti.
Come si tradurranno le intenzioni nei fatti? Le direzioni intraprese sono tante, riconducibili alle stesse matrici, quella del recupero, del basso impatto ambientale e della solidarietà. Nell'allestimento principale trovano posto 10.000 mq di cartongessi e 14 chilometri di strutture metalliche recuperate dalla Biennale 2015. Oltre a queste scelte se ne affiancano altre 'di metodo', che risiedono nel mostrare il 'work in progress', non l'opera finita ma il processo di realizzazione.
“Se dieci anni fa – come ha ricordato il Presidente Baratta – i nostri spazi erano disponibili ad accogliere il gioco degli architetti attraverso grandi progetti, oggi osserviamo i paesaggi costruiti con l’intento di riqualificarli”. Bando ai ladmark, con la scomparsa dei rendering e il ritorno dei modelli 'tradizionali' realizzati con i materiali tradizionali: dal polistirolo al cartone. Materiali protagonisti nelle visioni che campeggeranno nell'allestimento del padiglione centrale spiccano i lavori con il bambù, come quelli realizzati dai vietnamiti Vo Trong Nghia Architects e del colombiano Simon Velez.
Sono 88 gli architetti ospitati, provenienti da 37 Paesi. Di questi, per tanti (circa 50) è la prima partecipazione, molti sono giovani under 40 e la maggior parte, come potevamo aspettarci, sono poco noti. Anche se qualche nome di prestigio c'è. Fra tutti: Aires Mateus, Herzog & de Meuron, João Luís Carrilho da Graça, Kengo Kuma, Kéré Architecture, Norman Foster, Rem Koolhaas, Studio Mumbai e Shigeru Ban.
Padiglione Italia: 20 progetti sociali
C'è attesa anche per il Padiglione Italia che, curato dalla squadra di architetti formata da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso della TAMassociati, che promuove il messaggio "Taking Care - Progettare per il bene comune" declinando in tre azioni- pensare, incontrare, agire - il significato dell'uso dell'architettura per incidere sulle trasformazioni sociali ed economiche dell'ambiente costruito.
I beni comuni sono come semi che possono moltiplicarsi e crescere – spiegano i Tam Associati – e l’architettura deve saper coinvolgere e coordinare diversi attori all’interno di una piattaforma dove il progettista ha un ruolo attivo nel combattere disuguaglianza e ingiustizia, porre rimedio al cambiamento climatico, porre fine ala povertà estrema.
Nel Padiglione verranno promossi 20 progetti ad azione concreta che con particolare sensibilità ai luoghi, alle comunità e alle risorse locali sono stati realizzati in Italia o in contesti internazionali ad opera di team italiani.
A campeggiare la conversione della Casa del boss di Casal di Principe in un Museo e il programma di rigenerazione edilizia attraverso opere murali realizzato a Tor Marancia a Roma grazie ad un protocollo d'Intesa siglato da Ater, Associazione Culturale 999 e Municipio VIII e basato sulla partecipazione degli abitanti del quartiere che godranno dell'effetto permanente di una galleria d'arte a cielo aperto. Ma anche l'architettura collettiva torinese del centro polifunzionale del Sermig all’interno dell’ottocentesco arsenale militare, recuperato in un’ottica di efficiente e parsimoniosa funzionalità. E la nuova casa sociale di Cles, in Trentino, simbolo del recupero dei valori di socialità, collettività ed identità.